venerdì 15 ottobre 2010

IL TEMPO D'ISACCO


Passato è il tempo d'Isacco.
Passato è il tempo dei carretti
cigolanti sulla strada ghiaiosa.
Quel tempo sembra essere un ricordo lontano
eppure è di ieri.

All'alba uno scricchiolio di ruote
un cadenzato calpestare di zoccoli
poi il suono s'allontanava piano piano.

Passato è Isacco.

Così leggero e sempre più distinto
sentivo il vociare delle donne
quando, all'ultimo suono di sirena,
si affrettavano alla filanda: poi
tutto taceva.

Era allora che il capinero
salutava il dì con il suo canto.
Voci laboriose, poi
silenzio.
Ed ancora voci.

Di tanto in tanto un carretto
due grida, un vociare di donne
un grido, un rumore leggero di zoccoli
una porta che sbatte il carretto che va
un corno che suona.

Quando gli occhi rivolti all'insù
s'abbagliavano di luce
una sirena risuonava nell'aria:

s'apriva un portone
ne uscivan le donne con aria giuliva.
E ancora silenzio.

Giochi di bimbi, richiami di madri
e nella strada deserta:
ancora silenzio.

Era l'ora in cui tutti
sedevan intorno alla mensa.

Al primo rintocco dell'Ave Maria
con il primo bagliore di stelle
quando l'aria si faceva più serena
e una campana c'invitava ad una preghiera
dalle case uscivan le donne
a godere del fresco serale.
Ridevano forte e parlavano piano.

Giochi di bimbi
grida di madri
saluti frettolosi poi
tutto
s'addormentava nella notte.

Mario Borsoi

PALCOSCENICO

(dedicata a mìo padre)


Non era per te che amavi la vita
ma per noi
e questo era quello che
più ti faceva vivere.
Ma amare gli altri
vivere
solo per gli altri no!
Non è giusto verso noi stessi.
E una nobile slealtà che
molte volte gli altri
non comprendono.
Spesse volte
ti ho visto sorridere
e troppe piangere
nei tuoi sentimenti avviliti.
Ti guardavo
senza farti capire che
capivo...
E soffrivo
anche se sorridevo
ballavo e scherzavo.
E così. Si.
Noi siamo degli attori
in questa vita
ed ognuno ha la sua parte
davanti a tutti
e l'altra
dietro le quinte.
Ed è forse questa la più difficile
da recitare
e per gli altri capire.
Ora la commedia sta per finire.

Mario Borsoi

PER VIVERE


Ho cancellato dagli occhi di bimbo
il verde del prato l'acqua del fiume
il gioco fraterno e l'amore sincero:
per vivere ancora.
Ho cancellato un giorno lontano
per continuare.
Un passato di fate per mari e per monti
per non ricordare
i sogni per non sognare.

Non avevo più niente.

Ho cancellato un giorno lontano
per vivere ancora.
Ho cancellato un passato per continuare.
Ho cancellato i ricordi per non ricordare
i sogni
per più non sognare.

L'amore, il dolore.

Non avevo più niente per vìvere,
solo un segno
profondo...
Ed ho riscritto tutto
per continuare
a vivere.

Mario Borsoi

Alla Natura

dedico questi mìei pensieri
ALLA NATURA
che tanto amai e amero'


Da te ogni uomo può attingere
saggi consigli che costano niente
e valgono più dell'oro.

...

Mi accorsi di te
passeggiando in quei giorni
spensierati e felici:
ti amavo
con il cuore di fanciullo.

Tu fosti l'unica mia amica
solo con te ero felice!
Perché, tu sola, eri sincera
e buona
ed una sola cosa m'insegnasti.

Ma poi
d'un tratto
non so perché
più non ti vidi.

Ancora oggi tu sai
che ti vengo a trovare
e ti parlo con parole sincere
che tu, sola, sai capire.

E quando si farà tardi
e dovrò andare
tu sai che
un giorno
tornerò fanciullo
e ti verrò a trovare.

IMPETUOSO FIUME


Inesperta bocca che arde parlar di poesia ed
impetuoso fiume di sentimenti sento
nell'animo travolgere i pensieri.

Poca cosa le labbra riescono a dir di
quel fluire che per le vene mi scorre
ad ogni fremito
d'amore.

E l'alitare mio cerca
quel soffio che dà movenze
e corpo alle parole
quasi volesse prosciugar
quel fiume
che dalla vita sgorga
dentro, bagnandomi
m'attraversa e va
a dissetare il cuore.

Mario Borsoi

NOTTE TRA TANTE CROCI

Notte tra tante croci ritornan mesti gli
ultimi ricordi una pagina s'apre di dolore
e sulle deluse speranze più triste, più
solo il mio cuore piange. Notte, lento
stillicidio di gocce che pare un quieto
pianto: piove sulla tua croce come Dio
volle, piove sui ceri che il cuore dolente
ha voluto stasera; piove sul povero capo
piegato, sulle mani che tergon tremanti
questo mio volto bagnato dal pianto
delle ore perdute. Piove, piove ancora
fin sotto le ossa da questo dolente mio
povero cuore
mio Dio.


Antonio Borsoi

IL MALOCCHIO

I cresimandi più fortunati ricevevano un tempo dai loro santoli un orologio. A un ragazzo del paese andò ancora meglio: egli ricevette dal padrino una macchina fotografica. Il dono era considerevole sia per il valore, sia per l’originalità. Nessuno possedeva un simile congegno in paese.
La pellicola consisteva in un breve film di celluloide arrotolato su un cilindretto di legno e consentiva nove pose.
La prima esperienza fotografica ebbe luogo presso la fontana rotonda davanti alla casa, specchio amato di notte dalla luna. La sorgente era incorniciata da un’aiuola circolare coltivata a stramonio. I grandi fiori bianchi di questa pianta ramosa e biforcata facevano bella mostra di sé. Venne poi la volta del grande tiglio nel cortile dell’ardito, superbo gallo del pollaio, entrambi meritevoli di una bella immagine.
La macchina fotografica era tuttavia un dono troppo importante per rimanere sconosciuto ad amici e parenti. Doveva subito essere esibita ai cugini che abitavano in un ambiente montano. La visita a questi ultimi fu effettuata nella domenica successiva a quella della cresima. Considerata la scarsità delle pose ancora disponibili, spettava a questi ultimi la proposta delle foto da scattare: una bella costruzione vicino al bivio, tre ragazze incostanti e sdegnose, il cui corpo pneumatico sbocciava con cautela, un direttore generale noto per lo stipendio d’oro in cambio di una faccia di bronzo, infine un individuo prepotente, poco rispettoso per la proprietà altrui e dedito più all’usura che all’uso dell’ambiente.
Per lo sviluppo della pellicola bisognava attendere un po’ di tempo, in altre parole la prossima mancia dello zio saggio e bonario. Il dono giunse invece inaspettatamente dal santolo e si poté procedere con sollecitudine .
Le pianticelle di stramonio risultarono afflosciate. Il tiglio appariva ancora florido nella foto, ma in realtà l’albero dal bel portamento era stato colpito dal fulmine il giorno prima. Il gallo era stato infine trovato morto nel recinto ad opera delle martore, così si supponeva.
Il fotografo dilettante si turbò. Poteva una macchina fotografica portare sfortuna? Oppure si trattava di una strana coincidenza? Quando fu accertato che anche un paio di galline, fotografate casualmente in un discosto secondo piano insieme al gallo, erano morte, il sospetto aumentò. A favore della coincidenza rimanevano tuttavia le altre sei immagini del tutto regolari. La maggioranza appariva determinante, ma il dubbio rimaneva. Era il caso di chiedere con prudenza informazioni ai cugini. Le brutte notizie giunsero presto. La bella casa vicina al bivio aveva preso fuoco. Un corto circuito, si diceva. Le tre ragazze erano state lasciate dai rispettivi fidanzati confermando il proverbio che la bile del vicino è sempre più verde, o qualcosa del genere. Come è noto l’abbandono è pur sempre un corteggiamento alla rovescia. Il Direttore Generale, mentre si allenava in bicicletta, andò fuori strada infilando il capo in una siepe di recinzione rigorosamente intrecciata a maglie di rete vegetale e dovette rimanere a lungo in quella scomoda nonché umiliante posizione. L’ultimo personaggio, infine, era finito in ospedale la sera prima per una grave intossicazione da funghi.
La successione dei fatti sembrava sufficiente per collegare la macchina fotografica a funesti poteri occulti. Come ognuno ben sa, chi pratica il malocchio è un uccello del malaugurio, anche se non ha mai volato.
Che fare? Esistevano due possibilità: darsi al professionismo con probabile successo, oppure conservare l’apparecchi sotto chiave per eventuali, future necessità personali. Un simile oggetto avrebbe potuto benissimo sostituire perfino il pur notevole potere della pernacchia in fin dei conti. Fu scelta, per il momento, la seconda opzione.

Nerio De Carlo

CRESTOMAZIA

L'amministrazione, pomposamente chiamata anche l’Istituzione, era un agglomerato di scarsità: bastava la mancanza di talento per avere successo. La sua esistenza non produceva nulla. Le lunghe riunioni di lavoro, in cui si parlava di lavoro, ma non si lavorava mai, terminavano sempre con un ignobile coro con l’esortazione a non remare finché una certa barca procedeva da sola o per spinta altrui.
Un giorno, per una di quelle inerzie , o derive, determinate talvolta dai fatti, l’Istituzione ebbe l’occasione di ampliarsi in un inconscio contesto internazionale. Gli organici si moltiplicarono non tanto nella prospettiva di un buon lavoro, bensì di un lauto stipendio. I compiti a giustificazione dei costi consistevano nella formulazione di direttive internazionali, appunto, benché nessuno dei dipendenti conoscesse una lingua straniera. C’era anzi la presunzione che la propria lingua fosse l’unica degna di essere parlata.
I risultati si notarono presto.
Soltanto le spese rimasero segrete.
Una direttiva internazionale prodotta dall’Istituzione stabilì che le maglie servissero a coprire la parte superiore del corpo. Non era cosa da poco. Dopo questo geniale esordio giunse un’interpretazione autentica della segnaletica nei luoghi pubblici. Per esempio, se una tabella proibiva l’accesso ai cani, il divieto doveva valere anche per i maialini nani, che una nuova moda aveva introdotto mettendoli al guinzaglio di certi stravaganti.
Le cose andavano bene e l’aumento degli stipendi a giustificazione dell’attività procedeva di pari passo. Un lunedì mattina giunse una donna con le natiche depresse dalla forza di gravità, la pelle a buccia di ananas e, forse, con la coscia varicosa. C’era un ufficio vuoto. La nuova venuta appose sulla porta un cartellino con il proprio nome preceduto dall’immancabile titolo accademico, la qualifica, la scritta “Crestomazia” e vi si inchiavardò.
A fine mese il cedolino della retribuzione non arrivò e la donna protestò con l’ufficio del personale.-“Provvederemo subito”, assicurò il direttore. Costui era un tipo molto preciso. Basti di re che leggeva sempre lo stesso giornale, che però il commesso doveva però comperare esclusivamente nella medesima edicola.
Una nuova direttiva, destinata allo scafale delle inutilità, era stata intanto emanata dall’Istituzione: se dei ragazzi si fanno il solletico giocando e nella smania si registrano scalfitture, queste non si configurano come lesioni personali. Inutile pensare al prezzo di una simile risoluzione.
Le riunioni di lavoro, dense di lamentele per la scarsità di denaro ma non per la penuria di intelligenza, erano state nel frattempo integrate da un giocondo canto di chiusura. Si accennava a qualcuno che avrebbe dato e ad altri che avrebbero avuto, senza entrare tuttavia nei particolari delle donazioni e senza accennare a una data, in cui la prodigalità avrebbe dovuto terminare.
Un giorno il buon umore cessò. Un controllo, ma forse si era trattato di una delazione, aveva scoperto, dopo tanto tempo, che l’occupante dell’ufficio trovato vuoto era in realtà un’intrusa. Il fatto in sé non sarebbe stato grave ma, se si fosse saputo, avrebbe potuto determinare una riduzione dei rapporti destinati alla produttività, si fa per dire. Il Direttore Generale (sarebbe stato più esatto chiamarlo direttore caporale, senza voler minimamente sminuire quest’ultima figura) chiamò l’interessata, la imborotalcò con lodi per la sua attività e con promesse per il futuro ma, poiché nell’istituzione c’erano ostilità elettive e mele marce da evitarsi (a meno che non si sia un verme), per il momento essa doveva capire l’imbarazzo che la sua presenza determinava. Certo, la mancanza della “Crestomazia”, cioè dello studio delle cose utili, sarebbe stata una cosa grave per tutti.
La donna, che per l’occasione aveva spostato parecchio in avanti le proprie linee, precisò di non digerire i digestivi e confermò che la sua mansione, la “Crestomazia” appunto, non consisteva nel semplice studio delle cose utili, bensì nella raccolta di intuizioni, espressioni, pareri, comportamenti anche privati dei responsabili, che dovevano servire da modello per tutti i subalterni. Il Direttore generale ritenne, chissà perché, di comprendere in quelle parole, specialmente in riferimento alla sfera privata, una specie di ricatto. Egli si abbottonò accuratamente la faccia in cui brillava un gioioso occhio di vetro e l’altro, quello vero, era pieno di trepidazione. Offerse quindi alla signora una consistente somma di denaro affinchè tutto potesse risolversi bonariamente. Non dice forse il proverbio che la natica vale più della grammatica, o qualcosa di simile?- Dopo vari mercanteggiamenti che non escludevano, tra l’altro, un rientro nell’ufficio in tempi più favorevoli, la donna se ne andò.
Non poteva tuttavia finire così. Il guaio era accaduto, così si supponeva, perché qualcuno aveva parlato interrompendo la complicità da assuefazione. C’era la possibilità che l’inconveniente si ripetesse, benché si trattasse di un caso isolato e, come si sa, il singolo è una minoranza estrema. Bisognava neutralizzare subito la causa. La prudenza insegna che, quando si scorgono all’orizzonte quattro cavalieri al galoppo, è saggio controllare se per caso non si tratti dell’Apocalisse.
Prove non ce n’erano. Un semplice indizio portava a una persona distintasi per certe singolarità. Questa si era, per esempio, rifiutata di partecipare al gioco d’azzardo, che ogni mercoledì aveva luogo in ambienti determinati coinvolgendo alcuni colleghi. La persona era, inoltre, sempre assente alle cene organizzate per festeggiare di non essere andati a finire nei guai o in prigione in certe circostanze. A ciò si aggiunga, infine, il fatto che il sospettato della delazione non aveva mai manifestato simpatia per quel genere di solidarietà confinante con la complicità. Per non parlare poi della sua preferenza di generi alimentari non nazionali! Non era che la persona non volesse adeguarsi alle consuetudini: semplicemente non era adatta. Il Direttore Generale convocò il personaggio e disse con voce da tenorino raffreddato:”O cambi piatto o cambi sputo”. Sì, un tipo del genere sarebbe stato capace di provocare una crisi di rigetto in certe circostanze.
La persona di cui trattasi finì in un minuscolo spazio dello scantinato, arredato con un misero tavolino e una sedia. Nessuna mansione occupava il suo tempo. La finestra mancava e a nulla sarebbe quindi servito il rotolo di robusta canapa, tenuto sempre pronto per fuggire in caso d’incendio.
L’emarginazione è quindi paurosa. Tuttavia può sembrare amica perché consente l’elaborazione del pensiero. Sempre, però, l’estromissione è infida perché il suo logorio addormenta il pensiero e impedisce la manutenzione della serenità. Chi ne è vittima diventa un uomo-insetto simile alle metafore kafkiane della Metamorfosi e della Tana.
Giunse un autunno tanto malinconico, che le foglie non volevano cadere dai rami. La persona scostata si rendeva conto che in quel bozzolo stretto e insonorizzato avvenivano dei cambiamenti fisici, le scapole sembravano alucce membranose incompiute incollate a un tozzo corpo di crisalide. La risposta a tanta ostilità nopn diventava tuttavia mai accettazione della sconfitta. Le gambe e le braccia diventavano esili come zampette. Sembrava strano che gli arti fossero solo quattro. Il torace e l’addome sembravano rigati da alcuni segmenti profondi. I capelli si erano coagulati in due antenne filiformi. Soltanto il pensiero era rimasto integro.
La coscienza che l’uomo è comunque protagonista si fece strada. L’essere umano, artigiano del pensiero, può elaborare una propria strategia per la propria esistenza e ricominciare da se stesso. In una società che tende a trasformare gli individui in insetti, prima o poi ci sarà una reazione. Bisognava perforare il bozzolo. Ci sono accorgimenti per non diventare prigionieri di se stessi. Bisogna uscire all’esterno, prendere il volo, cercare qualcosa che manca, parlare.
La porta c’era ancora e la persona emarginata uscì. Parlò con i passanti con un acuto di dignità e con la convinzione che, in ogni caso, avevano diritto di esistere tutte le parole migliori del silenzio. Rimaneva certo che in talune situazioni tutti sono disperati, ma non tutti debbono entrare o rimanere in quelle dimensioni”.
Nerio De Carlo

IL MAIALE

Il paese in riva al lago era così piccolo da sembrare quasi privato. Anche le possibilità economiche erano scarse, in quanto l’agricoltura e la fisicità contadina erano le uniche risorse. I pioppi specialmente costituivano un piccolo reddito, buoni com’erano per la produzione della carta, cioè per dare rifugio alle parole.
C’erano difficoltà per le spese della Parrocchia, com’era facile immaginare. Si era allora stabilito di allevare un maialino che, una volta divenuto adulto e grasso, sarebbe stato rivenduto ricavando un sicuro margine.
La bestiola fu comperata per pochi soldi al mercato del mercoledì. Dopo la rituale benedizione del parroco, il suino fu lasciato libero di cercarsi il cibo vagando di casa in casa come facevano i mendicanti. Era stato indicato come “ il porco di S. Antonio” e sarebbe stato benvenuto presso ogni famiglia
Destava meraviglia che il maialino non oltrepassasse i confini del paese nella sua questua quotidiana. La maggior parte degli abitanti riteneva che tale saggezza dipendesse dal viatico ottenuto con la benedizione.
Altri invece conoscevano il motivo. Quando l’animale si presentava inconsciamente in una casa dei paesi circostanti, non solo non riceveva nulla da mangiare, ma veniva cacciato in malo modo. L’esperienza aveva dunque, esattamente come per gli uomini, delimitato il raggio d’azione e l’intervento sopranaturale non centrava affatto.
Il porchetto viveva saziamente tranquillo e trascorreva la notte sotto qualche tettoia per attrezzi agricoli, che in campagna non mancava mai, dove c’era della paglia perfino. Gli tenevano compagnia i gufi soliti a “sparger voci piangendo e tragger guai”, come dice il poeta. Di giorno aveva l’occasione di confrontarsi con altri suoi simili rinchiusi nei porcili e di apprezzare la propria effimera libertà. Aveva anche imparato che i cani consideravano gli esseri umani come superiori, mentre i gatti li ritenevano inferiori a loro. Il porco di Sant’Antonio era dunque completamente ignaro del proprio destino.
Non conoscere l’avvenire è certamente un bene, anche se permane una certa curiosità di fondo. In ogni caso l’avvenire non ha niente di reale. È come se il giorno ci accusasse di adulterio perché la notte ha dormito nelle nostre stanze.
Una volta, mentre succhiava la linfa ascendete di uno stelo di verbena, l’animale aveva sentito certi studentelli discutere se il maiale fosse causa o effetto della propria sorte, ma l’argomento non risultava chiaro né ai saputelli, né all’interessato. Egli pensò di rivolgersi a una gallina, che era una specie di veggente, per una spiegazione.-“Vedo solo salami e cotechini nel prossimo inverno …”, fu la fumosa risposta. I maghi, si sa, sono spesso poco chiari e la credulità non è la fede. In ogni caso anche i polli non avrebbero poi particolari motivi per stare tranquilli, ma chi può spiegare loro che il Natale è una bella festa?
Il porco di Sant’Antonio cresceva tra la soddisfazione degli abitanti del paese. Egli era in generale indifferente nei confronti degli altri animali. Un’eccezione però ci sarebbe stata. Si trattava di una porchetta baffuta e paffuta di proprietà del mugnaio, che esibiva un grugnito erotizzato dall’accento montanaro: un esemplare volubile e di scarsa reputazione.
Una mattina il maiale appena sveglio vide le pensose magnolie coperte di neve. Quello era il primo inverno della sua vita. Sarebbe stato anche l’ultimo? – Come si sa , anche gli animali sognano e gli era apparsa nel sonno una figura indistinta che gli disse: “Sono il senso orario”. Che cosa poteva significare se non un quadrante come quello sul campanile, nel quale erano segnate le ore prima verso destra e poi verso sinistra di chi guarda? In ogni caso era troppo difficile da comprendere per un maiale. Il freddo dell’inverno consigliò alla bestiola di rifugiarsi il un luogo meno esposto alle intemperie. C’era uno spazio chiamato “la stalla dell’asino”, la cui porta era soltanto socchiusa in fondo a un portico. Sembrava un luogo adatto e fu così per un certo tempo.
Una mattina il porco di Sant’Antonio si svegliò per la questua giornaliera e si accorse che la porta della stalla era chiusa, inspiegabilmente sbarrata. Più tardi due uomini lo afferrarono, lo caricarono su un carro transennato insieme ad altri suini per il trasporto al mercato del mercoledì, lo stesso dove egli era stato acquistato per pochi soldi parecchi mesi prima.

Nerio De Carlo

M O R T E

Ogni creatura consiste in due realtà:
individuo distinto fra gli altri
e persona aperta verso il mondo.

L’individuo è costretto in una capsula
gonfia di egoismo, ambizioni, sofferenza;
la persona abita in associazione.

Anche se ci manca la diretta esperienza,
la morte è un problema per l’individuo
ma non per la persona umana.

Ognuno di noi è come una goccia d’acqua.
Che succede a una stilla d’acqua
quando cade nell’immenso mare?

La forma sferica svanisce come tale,
ma alla sua acqua non accade proprio nulla:
si scioglie nel mare conservando la sua natura.

Nerio de Carlo

LA MIA TERRA

La mia terra aveva i gelsi
con le more bionde e blu.

La mia terra aveva i larìn affumicati,
ora usa termosifoni di ghisa colorati

La mia terra non è più
come la vedo nei miei sogni brevi come un bruco:

folte siepi di umile sambuco
con le foglie verdi e bacche blu.

La mia terra non legge i miei versi appassionati,
scritti in esilio in momenti disperati.

La mia terra, una sera che è un po’ distratta,
me la prendo e nessuno saprà dov’è andata.

Chissà se la mia terra mi accoglierà clemente
quando morirò: tanto è l’ultima volta, veramente.

La mia terra, la mia terra!
Ma la mia terra non c’è più.

Nerio de Carlo

domenica 8 agosto 2010

Nel Tuo ricordo

ZIA MARIA
(la tua eredità)

Passavo il cancello e venivo a trovarti
sedevo ad un tavolo per ascoltarti!
Mi guardavi negli occhi
con aria smarrita
e mi raccontavi le illusioni
della tua vita:
gli affanni, i dolori,
le gioie perdute per misere cose
non possedute.

“Meschina”, tu fosti qui in terra
alla ricerca di un’ora fraterna!
Venivo a trovarti e mi desti un consiglio
nelle ore più tristi
del tuo lungo travaglio.

Ti vedevo vagare con l’occhio perduto,
alla ricerca di un giorno smarrito.
Dentro al tuo cuore
Disilluso,
allo sbocciar della nuova stagione,
tu non cercavi che un giorno d’0amore.
Ora sei là
a riposare tra i fiori
lasciandoci qui i tuoi giorni migliori
tra gioie e dolori.

LUNGO LA VIA

Cammino.
All’imbrunire nell’aria fredda non sento più
l’odore di crisalide che t’avvolgeva le narici
l’urlo della sirena, il vociare scanzonato
dei fanciulli
e il chiassare delle donne all’uscita
che riempiva l’aria.
Ma sento ancora quei passi frettolosi
e irregolari lungo la polverosa strada.
Vedo ombre di tre, due, quattro persone
avvolte in scialli neri
sono loro.

Mi passano accanto le narici mi soffocano.
Le guardo:
un’esile mano gonfia
un’altra ne vedo lessata, cerea
e un’altra come fosse graffiata
che sanguina ancora …

Occhi cerchiati, labbra socchiuse
fiati sbuffanti, capelli umidi-fumanti
scalpitio di zoccoli.

Pochi passi ancora
sono davanti casa.
Ricordi

QUANDO IL RICORDO SI FA POESIA.


I ricordi della prima giovinezza sono di solito quelli che una persona ama proporsi con più tenerezza durante le diverse tappe della propria vita.
Questo, non tanto per i fatti che l’hanno vista partecipe di questo o quell’evento, ma principalmente per come il suo animo e la mente, non ancora distorti da modelle consumistici, si siano sentiti coinvolti nella semplicità dei sentimenti che hanno così impresso, nella sua memoria, l’indelebile ricordo di quel vivere ora trascorso.

Così, i ricordi delle molteplici situazioni della vita entrano a far parte della nostra cultura attraverso un sentimento. S’imprimono, vivono nel tempo che scorre sopiti in noi, e in noi ritroveranno, nel presente futuro, un senso all’esistere, all’esserci per un successivo avvenire.
Se poi sono richiamati alla memoria da quei brevi attimi d’intimità che la persona, a volte, sente ridestarsi in lei per un confronto con il presente – e perché no, con un velato senso di nostalgia – spesso l’aiutano a maturare, in quei momenti in cui l’animo si sente svilire ma non sopraffare da un vivere consumistico, e a cercare così, come fosse un bisogno vitale, un significato che abbia valore per dare, nei successivi passi, una nuova impronta al proprio agire nel confronto d’ogni giorno: l’ideale da imprimere alla propria esistenza, come meglio spenderla.

E’ un dialogo che spesso si compie in ognuno di noi e che avviene nella nostra mente con stati d’animo diversi e nei momenti più inattesi della nostra quotidianità; come se questa – la mente – fosse attratta da uno schermo velato e svelato dal sovrapporsi delle stagioni, e da una mano invisibile che fa ripercorrere e rivivere nel nostro essere anche tutto un mondo di sensazioni ancora viventi in noi: scordate, forse, ma non svanite; e fossimo noi – e lo siamo! – bisognosi d’ascolto d’intima riflessione, di confronto nonché di esaminare quel segreto colloquio che, dispiegandosi come da un libro, dalla voce dell’intimo silenzio, ci distingue e ci unisce nel nostro presente fondendosi nel passato.
Un colloquio fatto sul filo invisibile dei ricordi che, seppure siano di un passato oramai trascorso, hanno un loro significato che non si disgiunge dal confronto con il presente. Un passato al quale rivolgere le nostre domande fatte di certezze ed inquietudini a volte profonde,

Così ti puoi ritrovare sulla via di casa ripercorrendo, nel tuo pensiero, quelle due strade parallele che ti riconducono al punto d’incontro che ci riunisce all’infinito. E dall’intima voce del silenzio, camminando in una fredda sera, sentir riaffiorare un mondo famigliare: quello del tempo delle “Filandaie”.

Un modo che era anche il mio mondo e al quale mi sentivo, nell’intimità di fanciullo, vicino: con affetto. Un mondo che di tanto in tanto rivive venendo da un passato che non è mai trascorso, perché ancora vivente in me.
Di giorni vicini, seppure lontani nel tempo, fatti di sorrisi, di amarezze e speranze; e dove la vita sebbene non prospera di beni come oggi, era amata per quello che ci dava.

Da quel profondo mare che vive, ed esiste nell’animo umano, rinascono le parole d’un sentimento che, trascritto in brevi lettere e ricadendo sulla superficie di un foglio bianco, ridanno vita a un susseguirsi di sensazioni, sentimenti, come una foglia che portata dal vento, cadendo su uno specchio d’acqua, dà vita a quei cerchi concentrici che rinascono gli uni dagli altri: così, come il ricordo delle nostre esperienze passate. Si fanno poesia:

INTRODUZIONE

Ciò che è scritto con il cuore si legge con il cuore, dimenticando la ragione dell’uomo che è parte di noi per ritrovare , così, nell’intimo nostro più segreto, l’ingenuità di un bimbo assopito, dimenticato o lasciato morire.

Scrivere con il cuore: significa cogliere dal proprio intimo più profondo le voci della natura, anche le più nascoste e segrete, per farle vivere in noi e con semplicità di bimbo amarle.
Coglierne il significato con l’animo: significa donare, non già quello che si ha in sovrappiù, ma di più, a chi non ha. Questa si chiama vita..

A volte ciò che scrivo di buono lo scrivo perché c’è qualcosa in me che è più forte di me.
Ma ora non so se dico questo per orgoglio o presunzione, o per lodare me stesso compiacendomi, così, di averlo scritto e di averlo detto.
So di certo che quel qualcosa di buono, che ho scritto e detto, mi apparterrà nella misura con cui io saprò viverlo con tutto il mio cuore nella mente e nell’animo per dimostrare non tanto agli altri ma a me stesso d’esserne degno di averlo ricevuto.
Così io vivo il mio afflato poetico.
Vorrei poter esprimere la mia sincera gratitudine alla poetessa Signora Gina Piccin Dugo, per la sensibilità d’animo e delicatezza che ha avuto accostandosi alla lettura dei miei modesti scritti; e per la Sua generosità intellettuale prestata loro nello svolgimento della prefazione.

Esprimere certi sentimenti, che dentro l’animo mi sono stati ravvivati dalla Sua persona (da un così importante rapporto umano e culturale che, seppure breve, incide ed arricchisce), per me non è cosa facile: il solo grazie non basta. Così come non può esprimere quello che provo la poesia, che mi sta nel cuore, che a Lei desidero dedicare: “L’INEFFABILE”.

Un grazie dal cuore
Mario Borsoi

L'INEFFABILE.

Vorrei poter descrivere i tuoi passi
quando quel giorno entrando
nella stanza buia del mio essere
apristi una finestra.

Quel giorno entrò la luce, l’aria
e il vento portò con sé
fin dentro il cuore mio
le voci, i suoni
la melodia del vivere.

Vorrei poter dipingerti così
come ti vedo.

Darti una voce come io la sento.

Ma il ticchettio delle ore
conduce via con sé
l’umana mia speranza
e non riesco a dir di te
ciò che vorrei.

M.B.

Dipinto di Giancarlo Scotta (la scansione del tempo)

PREMESSA.

Tra questi fogli, racchiusi in un libro, ho raccolto con l’invisibile mano del pensiero le parole scaturite dal fruscio di quel vento che soffiando, tra le corde dell’animo e il battere del cuore, ci rende vivi nei pensieri.

Nessuno è poeta. Tutti, però, siamo partecipi e traduttori di quel grande libro che è la Vita: la Poesia della Vita!

Siamo come le sillabe del grande “incunabolo” scritto dal Demiurgo mai veduto ma che sappiamo esistere; e che ogni giorno viene rinnovato misteriosamente sotto i nostri occhi incantati, estasiati da tanta bellezza creata e donataci con un atto d’amore. A volte anche inorriditi, questi nostri occhi, da ciò che tanta cattiveria umana produce dannosamente contro la Vita stessa.

Questa Vita è un meraviglioso libro dipinto che, sfregiato nei suoi colori, ogni giorno si rinnova davanti ai nostri occhi spesso ciechi e in virtù di quell’amore, che scaturisce dall’animo e dal cuore degli uomini di buona volontà, si ricompone con sempre maggiore frenesia dopo quelle crisi sociali provocate da menti bacate che tanto danno arrecano all’umanità tutta con lutti e sofferenze.

Noi non siamo altro, anche se irripetibili nella nostra originalità, che sillabe maiuscole o minuscole ognuna con caratteristiche diverse che, andando ad incidersi sulle pagine della quotidianità, si tramutano in fatti che nascono da responsabilità diverse che vanno a punteggiare la nostra esistenza. A coniugare quelle parole e a comporre quelle frasi, che tra le righe d’ogni giorno, parlano delle piccole conquiste e delle nostre grandi sconfitte sociali, nonché dell’esile e passeggera precarietà umana, facendoci così intuire a quale futuro potremmo andare incontro, con una volontà priva di vero amore e basata solo sulla sopraffazione che scaturisce dall’egoismo.

Certamente nessuno, pur cogliendo con l’invisibile mano del pensiero l’indescrivibile, l’indicibile bellezza della Vita, come pure la misteriosa drammaticità che sempre ad essa s’accompagna, è mai riuscito a visualizzarla in un dipinto, a trascriverla in parole o a comporla in musica per farla così assaporare e gustare tutta quanta anche agli altri – nel suo essere Vita! -, neppure avendola ammantata con la genialità artistica che suscitando negli animi, nei cuori e nelle menti degli uomini “quell’intuito” ci avvicina e ci fa somigliare all’Artefice, al Demiurgo di tutto. Né io, dunque, ho queste pretese con i miei scritti se non d’essere un amante che furtivamente si disseta al Suo senno: come fosse un bisogno vitale. E ciò che ho scritto è quello che ho cercato e raccolto con l’invisibile mano del pensiero.


***

Si può dire allora che la funzione della poesia consiste nel trasfigurare per mezzo dell’espressione dialettica, nello scritto, il sentimento di un vissuto intimo depositatosi nella vita della persona; e che filtrato attraverso la mente, che ne intuisce la profonda verità, nel verso poetico si sappia poi ridonare al lettore nel suo seducente “simbolismo- rappresentativo” come una tangibile esperienza da vivere. Esperienza dentro la quale il lettore possa ritrovare, tramite quelle parole, un confronto che lo farà sentire più intimo a questo o a quell’altro particolare percependone, così, l’intima consonanza nell’animo.

Si fondono allora, nella lettura del testo poetico, due vissuti originalmente particolari ma non uguali, anche se simili;
Il primo: quello della poesia scritta che, nella sua verità depositata nell’animo, subendo la spinta verso l’esterno dal soffio ispiratore (l’afflato poetico) artisticamente ammantato nella forma dello “scritto-simbolico”, si completa e si riversa fuori dal cuore nel testo compiuto – come l’acqua che sgorga dalla sorgente-. E, come donna ammaliatrice, va a ricercare e a trovare il suo punto di vita e verità, o meglio di coesistenza, con la realtà di chi legge;
Il secondo: è quello della poesia della vita vissuta dal lettore, ma rimasta rinchiusa nell’animo, che ritrova così, attraverso la “rappresentazione-simbolica” del testo poetico, lo stimolo che gli viene dal quel soffio che rivitalizza in lui un vissuto depositato; e che latente nella mente e nell’animo, nella consonanza dei sentimenti, gli fa battere il cuore richiamando alla mente i ricordi e rivitalizzando in lui quei residui del suo vissuto che credeva perduti, o per altri motivi, contingenti il suo vivere, inconsciamente ignorati o rimossi.

Poesia. Come l’acqua che sgorga dalla sorgente, significato antico che sta a voler indicare quel soffio invisibile della vita. E così, come l’acqua che sgorgando dalla roccia va a dissetare la terra inaridita rendendola prospera di mèssi, anche le parole, che vanno a comporre lo scritto poetico, sgorgando dal cuore dell’uomo si riversano sulla coscienza collettiva -come l’acqua sulla terra-, suscitando emozioni e rivitalizzando lo spirito di quelle branchie della società avulse dall’indifferenza.

E ancora poesia nelle sembianze di una donna – perché la poesia è donna! Come la musica, la pittura … - e quindi, come tale, al cuore dell’essere umano si rivolge parlando ammantata nel suo affascinante “inganno-poetico” pieno di verità; e per essere , così, meglio penetrata nel suo “senno-poetico”. Per fondersi più intimamente anche con l’animo dell’altro: e dare frutto.

Tutto nella Poesia della Vita ci riporta ad un confronto, non solo spirituale ma anche biologico, fatto d’equilibri la cui precarietà, se da un lato porta la mente ad avere cognizione dei vari problemi e la consapevolezza, così, che gli uni non possono fare a meno di esistere ignorando le necessità degli altri, ci fa anche comprendere che quando uno di questi equilibri viene a mancare, il germe (…), che inaridisce le coscienze, soffoca e distrugge.

Mario Borsoi

ALLA DONNA MIA


Già si fa notte e per il ciel stellato
ogni cosa divien immensa e pura,
allor che arcani mondi a noi disserra
l’anima in quella Fede
che di mortali cose non s’appaga
diletta mia compagna,
tu vieni, e col tuo far dolce e pensoso
come già al tempo di tue prime gioie,
teneramente narri a questo cuore
l’amor che sta su in alto e vien da Dio.
O vane, o tristi cose della terra.
Tu vieni ognora ai sogni miei più cari,
tanto tanto desiata
e nelle voglie delle notti insonni
sol te pensando e il ciel trovo ristoro
o dolce sposa amata.

A.B.

CAMPANE.



Campane. Odi? … Din … don …dan. Voci a sera.
Un casolare … poi … un lume lontano.
Din … don … dan … Pace: passa una preghiera
Sul mondo che dorme … si … dorme. Arcano.

Fruscio sommesso di foglie d’argento
Sotto la luna piena: acque correnti:
Un usignolo … un lontano concento
Di amore … pie voci … dolci lamenti.

Din … don … dan … : ai morti, al mondo si pace.
La eco risponde nella notte e muore:
Tutto, fratello … tutto il mondo tace …

Din … don … dan … : del riposo, grazie Signore.
Ancora la eco risponde: una fàce
Il mondo pio ha acceso per te … Amore.

Antonio Borsoi

NOTTE FRA TANTE CROCI

Notte tra tante croci
ritornan mesti gli ultimi ricordi
una pagina s’apre di dolore
e sulle deluse speranze
più triste, più solo il mio cuore pioange.
Notte, lento stillicidio di gocce
Che pare un quieto pianto:
piove sulla tua croce come Dio volle,
piove sui ceri che il cuore dolente
ha voluto stadera;
piove sul povero capo piegato,
sulle mani che tergon tremanti
questo mio volto bagnato dal pianto
delle ore perdute.
Piove, piove ancora fin sotto le ossa
Da questo dolente mio povero cuore
mio Dio.

Antonio Borsoi

(Ritratto di frate di Daniele Brescacin)

COMANDI!


Una nota giornalista era stata inviata a tenere una conferenza presso il Centro Culturale. Oggetto dell’incontro era la causa che determinò il crollo dell’Impero di Roma, senza peraltro spiegare se si trattasse della città dei Cesari oppure dei Vespasiani.
L’ultimo tratto del viaggio fu compiuto in autobus. Tutti i passeggeri erano intenti a parlare in continuazione con il telefono cellulare e a far sentire ostentatamente ai vicini i fatti propri. –“Ci sarà poi veramente un interlocutore dall’altra parte?”, si chiedeva la giornalista. L’unica cosa da aggiungere a quanto già noto per la relazione sembrava una frase tratta dal libro di Ben Pastor “Il portatore d’acqua”. L’opera conteneva infatti una spiegazione insolita:”Ci sono tanti occhi azzurri in giro”. Ecco questa frase sembrava un chiarimento originale e fondato per la fine dell’Impero. Così fu infatti.

Dopo la relazione e le usuali congratulazioni ci si dimenticò di parlare del compenso e la giornalista poteva ritornare da dove era venuta oppure, già che si trovava, fare una breve visita al proprio paese natio situato nella stessa provincia. Prevalse la nostalgia e fu scelta la seconda possibilità.

C’era qualcosa d’insolito nei negozi. Sembrava che si parlasse un’altra lingua. Le vetrine, specchio impietoso sia per chi sta all’interno sia per quanti sostano all’esterno, rivelavano commesse ancheggianti e in parte non esenti da cellulite. Molte portavano una specie di sopraveste di lana ampia e magnifica, indicata per nascondere le abbondanti convessità. I maschi indossavano invece la clamide, cioè un mantello affibbiato al collo o sull’omero destro. I pochi apprendisti vestivano l’alicula, una corta avviluppante le spalle. Tutti indumenti che rievocavano l’antichità romana che, nemmeno a fare a posta, era stata l’oggetto della conferenza. Stonavano in generale le moderne calzature al posto delle più adeguate “ caligae”: come jeans sotto un abito da sposa, ecco.
Da sempre veniva inculcata nella gente della città l’idea di un’ascendenza capitolina tanto improbabile quanto ridicola. Genere di consumo per menti deboli, di cui esisteva, a quanto pare, una cospicua riserva. Che cosa ci fosse poi da vantarsi per tale eventualità, non si capisce. Ci vorrebbe una vaccinazione anticaricaturale perché specialmente tra il II° secolo a.C. e l’avvento del Principato il potere romano fu sanguinario. Cominciò con la distruzione di un invidiabile Regno fondato in Spagna da Sertorio, ufficiale del Console Mario che si era salvato dai massacri di Silla. Continuò con Giulio Cesare che, come tutti i vincitori, si scrisse la propria storia. Il personaggio fu responsabile dell’incendio della grande Biblioteca di Alessandria ai tempi di Tolomeo XIII° fratello di Cleopatra. Gli storici lo accusano di genocidio per come si comportò in Gallia dove, secondo Plinio il Vecchio, la sua ambizione provocò un milione di morti su un totale di 4.063.000 cives dell’intera popolazione dell’Impero censita tra la fine delle guerre civili e la concessione della cittadinanza ai provinciali. Non meraviglia che Cicerone abbia esultato quando seppe dell’assassinio di Cesare, come si legge nel quarto libro dei “Familiari”. Non stupisce nemmeno che Goethe abbia sostenuto:”Siamo diventati troppo umani per non provare ripugnanza davanti ai trionfi di Cesare”. Meraviglia poi che Cesare Ottaviano seguisse il suo esempio, oltre a quello di Crasso e Pompeo, per instaurare il Principato.
Il passato non può mai essere una costruzione del presente, il quale a sua volta è solo un indicativo virtuale!- Tutte le motivazioni storiche sconsigliavano l’emulazione(che non è la semplice imitazione del mulo), ma l’insistenza gradita al potere trovò un sicuro pretesto che dimostrava un’ignara ingenuità dei percorsi della storia: la pubblicità, ovvero la permuta di vecchie lune per nuove stelle. Come si sa, le stelle sono i fiori a cinque petali del cielo, occhio di Dio tuttavia non utili al viandante come la luna . Eppure una civiltà dovrebbe distinguersi anche per ciò che essa è capace di rifiutare. In un paese vicino si erano rifiutati di vestirsi alla romana. Avevano preferito la mascheratura da nativi americani, o pellerossa, come anche si diceva.

La giornalista entrò nel negozio che esibiva ancora la vecchia insegna “Generi Coloniali”. La bottega si trovava vicino al recinto degli edredoni, o “anatre dal piumino”, appartenenti al più noto genere delle “Oche del Campidoglio” che, pur essendo glorie pagane, hanno ora come Santo patrono San Martino.

“Comandi !”, disse con voce da baritono femminile la proprietaria paludata con una toga matronale, provvista di rughe e codice a barre e completata dall’autunno delle mani.
“Non comando proprio nulla. Ci mancherebbe altro, specialmente in un contesto che richiama alla mente come perfino l’Onnipotente abbia creato la vittoria quale schiava di Roma.- Desidererei, piuttosto, un piccolo astuccio per riporre un minuscolo cacciavite necessario a stringere la montatura dei miei occhiali”.
“Mi faccia penzare ‘nu poco. Onde stà? Ecco, signò, questo è un agariolo”, rispose la negoziante con una improbabile pronuncia romanesca che sarebbe certamente dispiaciuta al poeta Trilussa, ma che alludeva a una scarsa propensione per il lavoro.
Già, l’argariol, involucro ligneo per aghi: parola rimasta indietro nel tempo e che ci raggiunge.

L’atmosfera non era solo commerciale, ma di costume. Si sentiva un sottofondo musicale dal tempo allegro moderato, che non sarebbe stato male sostituire con l’overture della “Gazza Ladra. Il tutto offriva un’impressione simile a quella che si riporta osservando una torta durevolmente esposta nella vetrina di certe pasticcerie. Le guarnizioni sono chiaramente di gesso: canditi, panna montata, ciliegine , fragoline del bosco e mirtilli perfino, sembrano di grato sapore. In realtà sotto la torta c’è soltanto una vuota anima di cartone.
Fuori una nonnina apostrofava il nipotino per come indossava la maglietta:” ùn vedi questo! Ha messo su il davanti per il didietro!”-

La giornalista si chiedeva come mai si fosse giunti a tanto. In altre regioni una tale conformazione mentale con tanto di rinuncia allo spirito di appartenenza, di cui il linguaggio è testimone, non si registra affatto. E pensava:” Le scelte folcloristiche sono ovviamente libere. Bisognerebbe tuttavia evitare di considerarle come precostituite realtà storiche, magari con finalità didattiche. Ma questi non si accorgono che non saranno mai quello che anelano a diventare. Inoltre non sono più nemmeno quelli che erano. Non sono più nessuno. Sembrano momenti all’ibrido, una confusione, una deriva. Una svalutazione, una finzione permanente, infine. Bisogna proprio che si sentano a disagio nella propria identità naturale, per volersi trasferire in una pelle storica altrui, estranea e lontana, affidandosi a un improbabile segmento di reincarnazione. – Iniziare una nuova vita si potrebbe soltanto dopo la morte. Nel frattempo conviene intanto restaurare più volte la vecchia esistenza, perbacco! “

Man mano che la giornalista procedeva verso la stazione affioravano altre considerazioni. All’adeguamento psichico, per esempio, non sembrava corrispondere, nonostante gli sforzi, la conformazione fisica: le corde vocali e quindi la pronuncia restano quelle che sono, con delusione dei trasformisti. La risposta “comandi “, ancorchè meno usata, rimane annidata nella psiche quale traccia di un’inspiegabile subalternità. In altre parole la carne sarebbe magari forte, ma lo spirito debole. Poiché si contrasterebbe tuttavia con il messaggio evangelico, un popolo devoto non dovrebbe comportarsi a questo modo. A meno che per credere in certe cose non sia necessario ragionare: basta fingere, sforzarsi di credere. In ogni caso il linguaggio che ne risultava, segno di un’incompiuta metamorfosi trasversale, appariva grottesco. Esso non corrispondeva alla struttura e al perimetro del pensiero, ma piuttosto al pigolio della gramigna.
L’intacchinamento l’inguistico diffuso non sarebbe piaciuto nemmeno a Giacomo Leopardi che pure, nonostante tutto, si era lasciato sfuggire la sgrammaticatura “il zio” nello Zibaldone. In conclusione non si poteva provare per questo stato di cose una stima maggiore di quanto esso meritasse. Si trattava infatti di semplice analfabetismo emotivo: incapacità di riconoscere le emozioni degli altri. O peggio: il protocollo di una caduta nell’infantilismo culturale.
Le autorità vedevano di buon occhio la nuova proclività giustamente rappresentata soprattutto dai personaggi vestiti da schiavi, e non da poeti, romani. Sarebbe stato infatti arduo rinvenire un sembiante come quello di Petronio. I vermi solitari delle burocrazie nutrivano così le loro prede per poter fare un banchetto più ricco, come magistralmente si espresse Paulo Coelho nell’opera “Monte Cinque”, in cui si narra come il protagonista si fosse trasformato, con la fantasia, in un poco piacevole corvo. Oh, i corvi! Ce n’erano due, indifferenti e boriosi, solitamente stazionanti tra il Foro ( più appropriato sarebbe chiamarlo foruncolo) e il tempio delle Vestali appositamente ricostruito vicino all’allevamento degli ippocampi. Per il resto il mitico santuario era comunque deserto. Forse per mancanza di materia prima.

E’ pur vero che per uscire da certe situazioni è sufficiente il passaporto. Ciò non significa però che tutti i pettini non vengano al nodo, o qualcosa di simile, come ogni esperto di proverbi sa bene. Rimane legittimo (o meglio legittimo, per adeguarsi alla nuova tendenza traslocata peraltro con successo in un esame di gongorzo pubblico) chiedersi come andrà a finire. La storia e la sociologia insegnano che la consapevolezza di pagare per tutti in cambio di pedate nel sedere, colonizzazione culturale e sfruttamento economico, crea una solidarietà tra tartassati che assurge a elemento identitario. Perfino la gastronomia si adegua. Nei ristoranti locali sparisce infatti gradualmente la gratificante, breve e rosea congiunzione che da sempre qualifica un piacere del gusto insito tra le parole pasta e fagioli, pietanza con un curioso senso di solidità.

La giornalista guardava la gente e pensava a voce alta: “Finirà come l’Impero Romano diamine. Ci sono tanti occhi azzurri in giro “.
La notte di San Lorenzo era imminente e gli abitanti delle stelle cadenti aspettavano che la terra precipitasse, per esprimere a loro volta e finalmente il proprio desiderio: essere e non apparire.

Nerio de Carlo

La luna e il pozzo


- Racconti opitergini - di Nerio de Carlo

Ci sono libri che si vergognano dei loro autori.
Non sembra essere questo il caso di “La luna e il pozzo”, opera dalla poetica copertina. L’autore di questi 24 racconti sembra vivere nelle narrazioni. Forse egli, portatore sano di cultura, le ha proprio inventate per viverci dentro.
“Se vuoi essere universale, parla del tuo villaggio”, sosteneva Leon Tolstoi. E questo ha fatto l’autore, magari usando una prosa un pò “disobbediente” e “disinvolta”. C’è una topografia in parte inconfondibile in qualche pagina. Se non fosse dichiarato che nulla ha riferimento con la realtà e che tutto serve solo a conferire verosimiglianza alla narrazione, si penserebbe il contrario. I lettori sono alla fine come lo stomaco: bisogna dar loro cose che possono digerire. Il verosimile è a questo punto più leggero del reale.
I “Racconti Opitergini” sono uno spazio del silenzio e delle idee, un participio futuro con memoria più lunga di quella degli uomini. E tuttavia uno specchio nel quale non pochi, volendo, potrebbero scorgere l’aurora delle cose oppure riconoscersi, non fosse altro che per abbottonarsi la faccia.
Il mondo di oggi è molto piccolo: per questo bisogna integrarlo con il tempo che fu. Il passato ricorre spesso in queste pagine. Sembra essere una specie di manutenzione della dignità il passato. Lo stato di fanciullezza libera dello scrittore lo esige. Certo: egli non è una figura chiave e non si adatta a tutte le serrature. La sua immunità anagrafica e la sua extraterritorialità personale gli consentono di esprimere una cultura di radici e non di Oche del Campidoglio. Alle radici dell’autore mancherebbe qui, si può esserne quasi certi, solo la mitica “salàta de pissacàn”, vale a dire il comune soffione che tingeva di giallo le rogazioni.
In certi casi le scene narrate non sono vita, ma semplice consumo di tempo. Interviene tuttavia in “La luna e il pozzo” sempre una inaspettata correzione che ci strappa un sorriso o una riflessione. Una goccia di limone basta sempre, in fin dei conti, a schiarire il the opaco e aspro. Sono righe che non chiedono nulla , ma danno parecchie illuminazioni.
Che un libro lasci domande in sospeso è infine la sua maggiore qualità.

Ana Catarina Zusicheva

venerdì 9 luglio 2010

REQUIEM

Ancora un poco
ed è già tempo di addii.
Li vedi i calendari alle pareti?
Nei loro fogli è segnata
anche la data esatta della mia morte.
Io non potrò verificare,
ma so bene che sarà così.
Manca tuttavia l’ora della mia morte,
ma tutti i momenti sono al loro posto
come i tasti neri nel pianoforte.




Nur noch eine Weile,
und es ist Zeit, sich zu verabschieden.
Siehst du die Kalender an der Wand?
Auf einem ihrer Blätter steht das genaue Datum
meines Todes.
Ich werde es nicht überprüfen können,
aber ich weiβ genau, dass es so sein wird.
Die Stunde meines Todes fehlt noch,
aber alle Augenblicke sind an ihrem rechten Platz
wie die schwarzen Tasten auf der Klaviatur.
Nerio de Carlo

LEZIONE DI ENTOMOLOGIA

COCCINELLA: INSETTO COLEOTTERO, TONDO, DELLA GRANDEZZA DI UN PISELLO, SEGNATO DI SETTE PALLINE NERE
SULLE ELITRE ROSSE.

HA UNA VITA BREVISSIMA, MA GIÀ DOPO UN PAIO D’ORE NE HA ORMAI LE PALLINE PIENE DI UMOR NERO!

Nerio de Carlo

LA FINE DEL MONDO

Sono presuntuoso e credo di sapere
quando il mondo starà per finire.
Il mondo cesserà di esistere
quando le immagini prodotte dall’uomo,
rivali illecite di tutto quanto esiste,
supererà il numero delle creature viventi.
L’equilibrio tra l’esistenza
e la sembianza dei segni allora si spezzerà:
le immagini sommergeranno la vita
e il mondo finirà nel multilinguaggio
che crede di spiegarlo e possederlo.


DER WELTUNTERGANG

Ich bin eingebildet und ich glaube zu wissen,
wann die Welt beim Erlöschen sein wird.
Die Welt wird ein Ende haben,
wenn die von der Menschheit erzeugten Bilder,
die unerlaubten Rivalen jeder Existenz,
die Gesamtheit der Lebewesen überschreiten werden.
Das Gleichgewicht zwischen dem Leben
und dem Anblick der Zeichen wird zerbrechen:
Die Bilder werden das Leben versenken
und die Welt wird in der Vielzüngigkeit enden,
die sie zu erklären und zu besitzen glaubt.

Nerio de Carlo

ELOGIO DELLA STUPIDITA'


Dallo scuola-bus giallo erano scesi due ragazzi del paese e un adulto con il cane decrepito e mite. Non si sapeva chi fosse il forestiero. Anche la scelta del mezzo di trasporto, destinato agli scolari, sembrava insolita. C’era infatti un autobus di linea due volte al giorno, ma era poco frequentato. I maligni evitavano questa corriera con il pretesto che il conducente sarebbe stato un fervente sostenitore della reincarnazione, ma forse il vero motivo era da ricercarsi nel prezzo. L’uomo si avviò verso una casa vicina alla falegnameria, estrasse una chiave ed entrò. Quella dimora era nota come la casa dell’Inzaccheratore.
In paese tutti si chiedevano chi fosse lo sconosciuto che sembrava una minoranza estrema. Gli anziani sostenevano che egli avesse trascorso la gioventù proprio in paese, ma poi sarebbe emigrato. Al di sopra dei pensieri c’è sempre l’immaginazione.
Oh, l’emigrazione!- Il fenomeno trasforma la terra di ognuno in terra estranea. Nessun colore potrà mai invadere la felicità o la disperazione degli emigrati. Essi hanno la memoria sulla destra e il ricordo sulla sinistra. L’anagramma di regime è emigrè e anche il regime alimentare non è che un altro modo per alimentare il regime. Si dice che nel sesto giorno la creazione fosse terminata con la comparsa dell’uomo. Dal primo uomo sarebbero quindi derivati sia il fattore genetico, sia le anime che avrebbero vivificato il genere umano. Alcune di queste anime fuggirono tuttavia e seguirono vie diverse da quelle delle altre: sarebbero le anime degli emigrati.

Qualcuno sosteneva che il personaggio avesse lavorato in principio presso una ditta di spedizioni. Qui sarebbe avvenuto un fatto particolare. In un giorno climaticamente accettabile l’addetto all’invio dei piccoli pacchi sarebbe stato convinto da un collega buontempone che fosse imminente una nevicata e che era quindi consigliabile approntare la slitta, piuttosto che il solito carrello per la consegna dei pacchi alla Posta. Per evitare il possibile contagio della prurigine di stupidità il nostro personaggio avrebbe cambiato datore di lavoro. Comprensibile. Seguirono altri impieghi pubblici anche ben retribuiti. L’attività principale era costituita stavolta da interminabili riunioni di lavoro. Queste avevano luogo in una sala dove avrebbe ben figurato un cartello con l’invito di lasciare “calzature e teste all’ingresso”, come si leggeva nella sede di una setta religiosa non meglio definita. Tale abitudine aveva lo scopo di evitare che la responsabilità per le frequenti decisioni rovinose o inutili fosse attribuita a qualcuno. – Le determinazioni delle riunioni di lavoro, spesso contrassegnate dal fatto che si parlava di lavoro senza mai dire qualcosa, venivano infatti assunte collegialmente. Un marchingegno per nascondere la realtà: taluni responsabili non sapevano proprio quello che volevano, ma lo volevano subito. Sia detto per inciso, ma anche i Proci a Itaca agivano collegialmente. Nessuno di loro era individualmente colpevole. Secondo la Giurisprudenza attuale, essi non avrebbero nemmeno commesso gravi reati. Ulisse, invece, sarebbe stato accusato di strage premeditata. - Una continua delusione insomma.

Quanto costa una delusione? Non poco in termini di energie, tempi di percezione ed elaborazione, sfiducia generale o frazionata, eventuali ripercussioni economiche. Si può dire che il disagio di un disinganno perdura poi nel tempo e può influire sul futuro con incerte dimensioni. Esso può inoltre indurre a fidarsi più dei nostri disgusti che dei propri gusti, anche se gli individui si comportano diversamente gli uni dagli altri.
Il maestro del paese aveva le informazioni. L’uomo avrebbe fatto una brillante carriera come ricercatore. Egli sarebbe stato perfino sul punto dio scoprire il rimedio contro la stupidità. Come ognuno sa, la fortuna è cieca, ma la sfortuna ci vede invece benissimo. Quando la notizia trapelò, al grande laboratorio in cui lo studioso lavorava furono infatti sospesi i contributi statali per la ricerca.
Il disoccupato avrebbe allora comperatola casa dell’Inzaccheratore.

Nessuno sapeva perché mai quel luogo si chiamasse così. Qualcuno riteneva che quando il vecchi Impero fu sostituito dal nuovo Regno, il regime avesse inviato in paese un incaricato per decaffeinare l’antico linguaggio. L’Inzaccheratore, appunto. Col tempo si sarebbe in tal modo conseguita una parlata che non somigliava né alla lingua dominante, né a quella dei vecchi: una specie di ninna-nanna suonata con un trombone, ecco.

Il cane del forestiero era l’unico a mantenere i rapporti tra la casa dell’Inzaccheratore e la vicina falegnameria. L’artigiano costruiva casse da morto. Gli affari erano tuttavia miseri a causa della produzione in serie oramai imperante. L’attività era stata dunque convertita e vi si facevano ormai casse da morto per cani. Il settore non era ancora inflazionato e il mercato tirava. In fin dei conti anche l’amore per gli animali è un buon incentivo per il commercio. Il cane del nuovo arrivato faceva dunque da modello per il collaudo delle piccole bare.

Tutto bene quindi. Ma come poteva vivere un uomo solo,anziano e apparentemente senza mezzi? La curiosità aumentò quando si seppe che egli aveva comperato in contanti anche la tomba del Tessitore.. non si trattava di una tomba vera e propria in cimitero, ma di una semplice fossa, sulla quale ognitanto si posava un lucherino olivastro sul dorso e giallo sul petto. Si dovette procedere a varie consultazioni per identificare il perimetro esatto, poiché non c’erano indizi visibili.
“Dovrebbe essere accanto alla fossa del Fabbro”, ricordavano alcuni.
“No, la tomba del Tessitore era più in là, accanto a quella del Portalettere”, sostenevano altri.

Da dove proveniva il denaro tuttavia? Qualcuno sospettava dei risparmi. La magliaia era più informata. Da un po’ di tempo molti, soprattutto donne in dieta sentimentale, giungevano in paese, chiedevano quale fosse la casa dell’Inzaccheratore e vi si recavano, si diceva. Il nuovo arrivato doveva avere dei poteri speciali e più precisamente in campo sentimentale, si bisbigliava. Con una certa somma si poteva incontrare la ragazza o il partner dei propri sogni. Il triplo per sposarlo. La metà per una cena con un bacio stradale. Un terzo solo per sognarlo. Con la quantità, se non proprio con la qualità delle applicazioni, si arrivava ad una bella somma giornaliera, esentasse naturalmente. Alla fine dei conti la mancata scoperta e commercializzazione della pillola contro la stupidità si sarebbe veramente rivelata un buon affare. Ma a ben ragionare i tempi non furono mai migliori, se si pensa a Giobbe. E anche il clima non dovette essere un gran che, se si pensa a Noé.

Nerio de Carlo

CHI DI VOI E' SENZA PECCATO.

La sera scende ovunque dal cielo come una tregua malinconica nel paese solcato dal fiume anonimo irrequieto, essa sorge tuttavia come un’onda liquida e con odore di pesca matura dai prati e dai campi, che sono la cassaforte della terra. E a quella luce rosea i grilli sono soliti cantare il loro rosario di lodi, mentre il volo del pipistrello sembra uno scialle di seta che morbidamente fluttua nel vento.
Non accadeva praticamente nulla nel paese non ancora pizza dipendente e così vicino ai monti, che sono in definitiva i massimi pesi di questo mondo nonché attrazione liberatrice da certe condizioni del presente. Un misfatto avrebbe inoltre potuto, secondo un calcolo statistico, verificatosi solo ogni 889 anni in quel luogo situato in uno spazio imprecisato tra Venezia e Vienna, distante da ogni realtà senza metamorfosi, piantata in un eterno presente. Anche la genialità delle cornacchie non incuriosiva più. Funzionava così: i neri uccelli portavano le noci raccolte in un crocicchio quando l’unico semaforo era rosso. Appena il verde si spegneva, si affrettavano poi a raccogliere i frutti schiacciati dalle ruote dei pochi veicoli di passaggio. L’esperimento non sarebbe stato naturalmente da ripetersi in certe località disordinate, poiché nessuna delle bestiole sarebbe sopravvissuta. Tutto qui.
Era ovvio che la gioventù si annoiasse in un ambiente simile: cimitero senza lumi dove si credeva che l’amore platonico fosse un sistema contraccettivo del passato, anziché un punto d’appoggio perfino più saldo di quello immaginato da Archimede per sollevare la terra. Non destava quindi meraviglia che qualche ragazzo diventasse talvolta e per diversivo, per così dire, affluente minore del fiume.
Ogni tanto la novità era costituita da processioni religiose attraverso i campi tinti di giallo dai fiori del soffione. Il massimo dell’intraprendenza si realizzava poi in rare recite all’aperto, inscenate da ragazzi e ragazze su temi religiosi, come la Passione, il Natale, la cacciata dei mercanti dal tempio, il cammino di Gesù sulle acque, la guarigione dei ciechi, ma non della cecità, per opera del Messia …- Il parroco aveva letto per l’appunto qualche giorno prima un passo del Vangelo di San Giovanni:”Ora gli scribi e i Farisei condussero una donna colta in adulterio, e, dopo averla messa nel loro mezzo, gli dissero: - Maestro, questa donna è stata colta nell’atto di commettere adulterio. Nella Legge Mosè ci ha prescritto di lapidare tale sorta di donne. Realmente che ne dici? – Naturalmente dicevano questo per metterlo alla prova, onde avessero qualche cosa di cui accusarlo. Ma Gesù si chinò per scrivere col dito per terra. Persistendo essi nell’interrogarlo, si drizzò e disse loro: - Chi di voi è senza peccato le getti per primo la pietra. E chinatosi di nuovo scriveva per terra. Ma quelli che avevano udito questo uscirono ad uno ad uno, a cominciare dagli anziani, ed egli fu lasciato solo, e la donna che era nel mezzo”.

L’argomento si prestava per un breve dramma. L’attesa colava come cera fusa lungo le candele. Fu scelto quale palcoscenico un tratto della riva dove lo strame frusciava e le acque del fiume avevano formato una specie di spiaggia con tanto di sabbia fine bagnata: un habitat favorevole sia al Martin pescatore sia al Martin peccatore. Nessuna difficoltà ci fu per la scelta di quanti dovevano rappresentare gli Scribi e i Farisei: alcuni con sembianti da crisantemo, altri con la faccia da biomassa e denti che galleggiavano nella bocca. Il loro portavoce, diabetico per troppa sdolcinatezza, avrebbe dovuto in definitiva pronunciare soltanto poche parole!
Le difficoltà si presentarono quando si trattò di scegliere coloro che dovevano sostenere la parte di Gesù e della donna accusata di atti compiuti, si fa per dire, nell’esercizio della propria femminilità. Nel primo caso non poteva essere uno qualunque, ma uno che almeno sapesse scrivere. Si optò quindi per il maestro della scuola e la scelta fu gradita a tutti perché un maestro è pur sempre un donatore di neuroni. Nel secondo caso, poiché nessuna donna comprese quelle sotto la soglia minima della desiderabilità, voleva assomigliare al personaggio evangelico di cui si trattava, sebbene non fosse prevista la pronuncia di parole,
si dovette procedere per estrazione a sorte. Toccò a una giovane bellastra con caviglia levriera, curve sapienti e occhiali da sole simili a fogli di fico per nascondere lo sguardo di due occhietti fritti nel rossore. Costei, così si mormorava , era amante dei cavalli. In senso metaforico, naturalmente. Meno metaforica sarebbe stata invece la sua abilità nell’incontrare un peccator cortese mentre la madre stava dormendo. Si può comprendere: dopo tutto anche l’anima ha un corpo. – Questa scelta fu infine convincente, poiché ci sarebbe stata una indiscutibile coincidenza con la realtà. Nessuna avrebbe potuto interpretare quella parte meglio di lei, così si mormorava.

La rappresentazione ebbe luogo di domenica pomeriggio sotto un cielo raffermo aveva cessato di piovere. Non per questo comunque il governo era diventato meno ladro, tanto per stare a un antico detto popolare. La veste senza cucitura di Gesù era stata confezionata dalla tessitrice del paese. Gli spettatori, in parte coniugi con qualche carenza, erano curiosi e interessati. Capitava di rado un evento come quello, perbacco. Gli Scribi e i Farisei avevano un vestiario approssimativo, ma originale. La donna accusata non era vestita proprio come una santa , ma non importava molto poiché soltanto le vere sante sarebbero donne ideali. Tutto andò molto bene. I battimani e la soddisfazione del pubblico furono quanto mai meritati.
La ragazza che aveva interpretato l’adultera aveva tuttavia un desiderio: leggere quanto ripetutamente era rimasto scritto nella sabbia per aderenza al racconto evangelico. Quelle parole lasciate ad asciugare al chiaro di luna la inquietavano perché la luna è il sole della notte. Ritornò quindi con andatura autoinguinante e ammiccamento ombelicale sulla riva del fiume prima che si facesse buio e trascrisse quanto riteneva di aver letto:” Quanti credono di aver successo in amore non sperano più, perché sono illusi di aver raggiunto il loro scopo. Coloro che pensano di aver avuto definitivamente successo in amore, cioè di avere sottoscritto con l’amore un patto indissolubile, sappiano che essi rischiano di diventare cornuti dell’amore”. E infine:”Non si debbono porre i topi a guardia del formaggio, poiché non si è mai abbastanza cauti nella scelta dei propri contemporanei”.


Tutto intorno era buio. La luna illuminata solo nella guancia, calava verso occidente. Sembrava di udire il cigolio del Grande Carro nell’alta sommità della notte. Invece era l’usignolo nella fratta presso il ponte. Anche il canto di un uccello diventa responsabilità quando suscita emozioni.

In un incontro occasionale il maestro spiegò il significato di quanto aveva scritto. Le prime parole vogliono dire che , affinchè i sogni si avverino, bisogna prima di tutto svegliarsi. L’altro avvertimento riguarda la prudenza in ogni circostanza. Ci sono casi in cui il peccato è celato nella apparente regolarità e non viceversa. Bisogna quindi diffidare di quanti accusano il prossimo: potrebbero farlo per interesse o mossi dall’invidia. Tutto ciò con la massima riserva e cautela, soggiunse il maestro. Gesù e la donna erano stati infatti lasciati completamente soli, come assicurava il testo originale. Non c’era anima viva intorno a loro. Non si comprende quindi come sia poi stato possibile che terze persone descrivessero fedelmente ogni gesto e ogni parola.

Nerio de Carlo

LA POIANA E LA LEPRE

Racconto di Nerio de Carlo


Dove il parco degrada verso il Rasego accadde un episodio che non avrebbe potuto verificarsi altrove e di cui non sono noti precedenti. Due piccioni si erano scontrati in volo: uno era precipitato esanime sulla riva del fiume. È indiscutibile che i piccioni siano ingenui, ma fino a questo punto sembrava sinceramente troppo!

La scena era stata osservata con sorpresa da una poiana e da una lepre albina. Entrambe erano stanziali. La poiana era una sorta di falchetto con becco robustissimo senza dente e fauci molto fesse, tarso più lungo del dito medio e grande cacciatrice di topi.- La lepre aveva fitto pelame, orecchi lunghi, zampe posteriori più lunghe che la fanno atta alla corsa, al salto, a movimenti agilissimi in ogni verso. I peli erano di colore albiccio e dilavato a causa di un carattere genetico recessivo.

Dopo avere assistito alla collisione diventava evidente che si trattava di un sintomo di stupidità, dal quale nemmeno gli animali erano esenti e che avrebbe potuto diventare contagioso. L’idea di abbandonare la zona endemica e ritornare nei lontani luoghi d’origine era comune ai due animali. La mancanza di topi dovuta alla scomparsa della coltivazione sia del grano nella ricca veste di spighe d’oro, sia delle pannocchie dai grandi denti, era diventato un motivo impellente per la poiana, la quale sospettava inoltre che in qualche pertugio regnasse perfino la rogna. La lepre, invece, non aveva propriamente ragioni alimentari. Essa voleva piuttosto scoprire perché i suoi genitori non l’avessero voluta e fosse stata avviata su un carro alla volta del mercato del mercoledì, dal quale poi si era miracolosamente salvata.

“I nostri paesi nativi sono molto lontani. Con le ali servirebbe una settimana per raggiungerli. Tu ci impiegheresti circa tre mesi. La ricerca dell’identità è dolorosa. Assomiglia a certe radici quadrate: alcune sono immaginarie”.

“Potresti portarmi in volo con te”, propose la lepre.

“Un così lungo periodo senza mangiare mi impedirebbe di arrivare alla meta. Anche per te sarebbe difficile sfuggire per mesi ai cacciatori e ai loro cani”.

“Facciamo così. Tu mi prenderai con te e quando avrai fame potrai cibarti della mia carne. È l’unica possibilità per superare il lungo viaggio. Qui non possiamo più vivere”.

Sembrava un buon accordo, anche se c’erano rischi ed errori di valutazione.

La poiana e la lepre salutarono i salici dai fiori unisessuali, i pioppi dal bel portamento, i tigli con le foglie rugose a forma di cuore, il rameggio sempre verde del bosso, il trifoglio ramoso e le altre tenere erbe di cui si rivestono i prati di Rigole.- Poi partirono verso l’orizzonte lontano come ogni orizzonte.
Il primo giorno trascorse tranquillo. Verso sera ci fu però il primo sacrificio: il codino della lepre. Ma sì, a che cosa serve in fin dei conti un’appendice, un residuo del genere?
Il viaggio continuò e anche le lunghe orecchie sparirono una dopo l’altra.- Poi fu la volta delle zampette anteriori. Se si prescinde dal dolore, ne rimanevano comunque altre due di zampe, diamine!- Certo, anche queste non durarono a lungo ma, tutto sommato, a che servivano le zampe se c’erano le ali amiche?
La situazione si aggravò quando si dovettero sacrificare altre residue parti del corpo. Mancava ormai poco alla fine del viaggio e fu indispensabile intaccare gli organi interni. Stomaco, polmoni, fegato (non la cistifellea) furono dolorosamente divorati.

Erano già in vista le nobili stelle alpine e le genziane dai fiori vistosi. Anche il cuore fu allora consumato. D’altronde anche se avesse continuato a battere, non sarebbe stato possibile stargli dietro. La lepre era morta.
La poiana depose sulla porta dell’obitorio il piccolo scheletro che volle essere così deciso al ritorno e puntuale a dissolversi. Poi un suono scaturì dal becco dell’uccello:”Uzemi, tieni”.
L’accordo era stato rispettato senza tutela contro la morte.
Questa guarisce tutti dalla malattia di vivere. Oltre il recinto del camposanto i defunti sono ormai esenti dall'idea della morte. In caso contrario essi ripenserebbero alle trascorse difficoltà, alle effimere gioie, agli amori più o meno incerti e, in fondo a tutto, alla dolorosa diparta.
Un'angoscia.
Nerio de Carlo.

ALTEZZA IMPERIALE

“ Le folle non hanno mai sete di verità. Deificano l’errore.
Chiunque le disillude tende a diventare loro vittima.”

(Gustave Le Bone)

Poco prima della metà di dicembre 1824 i cocchieri ricevettero l’ordine di tenere pronti cavalli e carrozza per una trasferta molto importante. L’Arciduca Ranieri d’Asburgo, Vicerè del Regno Lombardo-Veneto, desiderava visitare le città imperial-regie di Oderzo e Motta.
Si presume che anche a Oderzo fervessero i preparativi. La gendarmeria sarebbe stata certamente informata e il signor Mantovani sarebbe stato lusingato di ospitare il personaggio e il suo seguito nel proprio albergo. Entusiaste sarebbero state , naturalmente, le famiglie Amalteo e Tomitano, presso le quali il regnante si sarebbe fermato per qualche ora. Anche la popolazione non sarebbe stata indifferente: la visita di un’altezza imperiale non era episodio frequente.
Per quanto poca esperienza abbia con le corti imperiali del mondo, ognuno può bene immaginarsi la scena. Una carrozza con un tiro a sei cavalli guidati da due cocchieri; due servi al seguito; un paio di gendarmi di scorta e un segretario dovevano accompagnare il Capo di Stato diretto a Oderzo. Non si può certo fare un confronto con le attuali scorte dei politici, ma si trattava pur sempre di una realtà inconsueta cui provvedere con cibo e alloggio.

La rugiada lunare, chiamata “aguàzh” era ancora gelata e la temperatura era pungente come il freddo del nulla. Dal finestrino della diligenza si vedevano le conifere: bellezze d’inverno. La brina incipriava i prati come una nuova mano di vernice. In lontananza si udivano i rintocchi del picchio. Nei pollai i capponi esultavano felici per l’approssimarsi del Natale.
Il tragitto non era agevole. La “Callalta” evidenziava buche ed asperità appena mitigate dal confronto con i fossi esigui che la accompagnavano. Il Granduca Ranieri, fratello dell’Imperatore Francesco II d’Austria e futuro suocero di Vittorio Emanuele II di Savoia, non era soddisfatto. Quando i viaggiatori giunsero alla Piave, anche il ponte si presentava malconcio e ciò aumentò l’irritazione del Principe. Non c’erano tuttavia alternative per i mezzi di trasporto a quel tempo: la ferrovia si sarebbe fatta attendere ancora per 71 anni! – Una pausa si imponeva comunque per ristorare le persone e i cavalli. Durante questo intervallo Ranieri dovette aver impartito l’ordine per il riassetto della Callalta. Da come il ripristino fu effettuato, si comprende come allora le decisioni delle autorità fossero subito eseguite: a differenza delle attuali delibere, per le quali occorrono tempi lunghi nella speranza che esse vengano dimenticate o abrogate da successive amministrazioni.

Nelle prime ore del pomeriggio i monti si mostrarono in tutta la loro irripetibile senilità. Gli alberi dal bel portamento erano miti compagni e l’Arciduca pensava, con invidia, che alle piante riesce qualcosa che gli uomini non possono fare: un sonnellino in piedi. Nei campi ai lati della strada le “bilussère” erano vigneti alti, larghi e grossi della magia del “vin moro”.

Oderzo attendeva con i suoi portici, già frequentati d’estate da innumerevoli rondini e divenuti d’inverno silenziosi rifugi per il letargo delle eleganti vespe gialle nere come i colori dell’Impero. La città era piccola tanto da sembrare quasi privata. Un filo di luce liquida era il Monticano, fiume mitteleuropeo e non peninsulare, che scorreva anonimo e irrequieto tra gli argini imbronciati come il mormorio del tempo non addomesticato da nessuna clessidra onoraria. Lungo il ramo interno del corso d’acqua, vicino al ponte di Gatolè vegetavano i salici piangenti, che in nessun caso possono essere considerati alberi tristi.

Sul cancello maggiore a sinistra prima dei portici del grande palazzo nel Borgo Maggiore, Ascanio e Francesco Amalteo, rispettivamente primo e settimo dei sedici figli di Giambattista, attendevano l’illustre ospite. Questi era al corrente che gli Amaltei, giunti a Oderzo da Innsbruck nel 1400, erano famosi per l’impegno culturale iniziato da Marcantonio e Francesco e poi sviluppato nei secoli da Gerolamo, Giambattista, Cornelio, Pomponio, Ottavio, Aurelio e Ascanio. Gli ultimi due erano stati poeti di corte a Vienna.

L’Arciduca volle subito visitare la biblioteca della famiglia. Tra le altre verità vi sarebbe stato conservato un raro codice della Commedia dantesca. Il libro manoscritto anteriore all’invenzione della stampa, sarebbe stato prestato all’editore veneziano Ludovico Dolce per una delle prime copie a stampa in dodicesimo nel 1555. Da quella data l’opera sarebbe stata poi denominata “divina” anche per la svolta impressa alla storia della cultura: la letteratura in volgare era diventata oggetto di interesse della filologia umanistica. L’edizione tratta dal manoscritto concesso dalla Biblioteca degli Amaltei evidenziava tuttavia un errore: Dante sarebbe nato nel 1260, mentre è consolidato il periodo tra il 14 maggio e il 13 giugno 1265!

Ranieri d’Austria rimase entusiasta per la quantità e la qualità di libri e manoscritti custoditi nella biblioteca e volle trattenersi con amabile sensibilità a colloquio con i proprietari. Fu durante questa conversazione che egli apprese l’esistenza dell’altrettanto celebre biblioteca opitergina dei Tomitano, cui pure dedicò un poco del suo tempo.

Le speranze di una più lunga permanenza del Principe a Oderzo andarono tuttavia deluse. Egli intendeva proseguire il viaggio per Motta, la città quasi al livello del fiume che attraversava : la Livenza.
La sera scende ovunque dal cielo. A Oderzo essa sembra invece salire dalla terra e avrebbe un color prugna. In questa particolare suggestione gravata dal freddo clima dell’inverno continentale, il viaggio di Sua Altezza Imperiale riprese attraverso il paesaggio in un tempo in cui la guerra dell’uomo contro l’albero non era ancora cominciata.

Francesco Amalteo, portatore sano di cultura, volle che l’importante evento per la sua città rimanesse traccia nel tempo. Egli fece quindi apporre sopra la porta d’ingresso della celebre biblioteca questa lapide:

Il 13 dicembre 1824 Ranieri Arciduca d’Austria,
Vicerè del Regno Lombardo-Veneto,
onorò della sua presenza con un’ora di umanissimo colloquio
la Biblioteca degli Amaltei, che è vanto della Provincia di Treviso.
Francesco Amalteo Affidò ai posteri un tale onore per la sua casa.

La lapide, insieme a quella esistente a palazzo tomitano, fu frantumata nel 1866 in nome della cultura e dell’amore per la storia locale, si suppone. E’ stato come se oggi la scuola pretendesse di escludere gli Dei dall’Illiade. La finta civiltà è peggio della vera barbarie. I tentativi per un ripristino dell’iscrizione hanno incontrato dapprima silenzio e poi lungaggini nella speranza che tutto finisca nella dimenticanza. Anche questo in nome dell’interesse e dell’amore per una pagina di storia della città, s’intende.
Nerio de Carlo


LEZIONI DI STORIA

La nostra città lacustre aveva alcuni dei più rinomati istituti scolastici della regione, ma la cittadinanza non dimostrava particolare propensione per la cultura in generale e per la storia in particolare. I giovani poi non erano coscienti delle fatiche sostenute dagli insegnanti per la loro istruzione. Eppure sarebbe stato sufficiente pensare alla pazienza di questi ultimi di fronte a tanta ignoranza per provare riconoscenza!
Un professore di storia, rigorosamente scapolo, attirava tuttavia la simpatia degli studenti. Essi potevano frequentare di pomeriggio la sua casa che si trovava presso una piazza dove, così si diceva, una gallina era stata bruciata sul rogo molto tempo fa per essersi trasformata in gallo. Le sorelle del docente, rigorosamente nubili, offrivano biscotti, castagne secche e carrube perfino. C’era inoltre la possibilità di imparare qualche nozione eventualmente sfuggita durante le lezioni di storia. Per esempio che l’umanità non ha una sola dimensione ma, come diceva Johann Gottfrid Herder, appare quale un albero con le foglie, fiori, frutti colori diversi, che si mescolano e confluiscono come quelli delle nuvole nel fulgore del tramonto.
Un giorno il professore disse:”Poiché questo è l’anno santo, se qualcuno va a Roma cerchi di procurare alcune cartoline dei fori imperiali e dei templi antichi. Da un po’ di tempo lo storicismo invertebrato insiste tanto sul fatto che noi siamo romani e, nonostante le prove in contrario le quali ammettono soltanto una lontanissima presenza fiscale e militare di emanazione romana, non è ammessa nessuna contraddizione. Strano è che tutti qui ci abbiamo creduto. Non mi voglio mettere contro il potere e quindi vorrei realizzare, benché contro voglia, alcuni grandi cartoni con immagini di come poteva essere il foro della nostra città secondo gli auspici dei fondatori della romanità, se non fosse stato com’era in realtà, cioè un foruncolo. Per questo mi serve un’ispirazione”.
Nel frattempo, per far risaltare supposte dimensioni capitoline, la scuola e la stampa avevano accuratamente decaffeinato ogni riferimento alla storia locale. Eppure in un paio di millenni doveva essere pur accaduto qualcosa anche da noi. Nulla da fare. Neppure l’idea poteva affiorare, che un popolo d’acqua dolce non potesse per definizione appartenere a una penisola bagnata in tre lati dall’acqua salata del mare. Chi nutrisse dubbi sarebbe stato considerato spazzino della verità, cioè colui che allontana “scoàzhe” storiche.

Di fronte allo scetticismo dei ragazzi, il professore disse che la gente di solito crede a tutto. Poi citò un esempio:”Il Pontefice Adriano I era in contrasto con Desiderio, Re dei Longobardi, e chiese aiuto a Re Carlo. Questi aveva sposato la figlia di Desiderio, la mitica Ermengarda, e non aveva giustificati motivi per intervenire contro il suocero. Il Papa Adriano gli inviò allora per convincerlo alcuni doni, il più gradito dei quali risultò un uovo dello Spirito Santo .. – Proprio così. Poiché lo Spirito Santo era apparso in un certo giorno di Pentecoste come una colomba, al Re era stato donato un uovo di piccione come segno della più alta devozione. Il futuro Imperatore e tutto il suo seguito ne furono lusingati e il 2 aprile dell’anno 774 entrarono a Roma come protettori della chiesa. Non sembri quindi così difficile far credere cose improbabili, come un uovo dello Spirito Santo.”

Le cartoline furono acquistate a Roma presso un tabaccaio e servirono veramente per alcune gigantografie riproducesti vestigia contrabbandate come antichità locali: immagini funerarie che evocano solo ruderi e fantasmi. Non mancavano le figure con i ruderi degli acquedotti. A qualcuno era infatti venuto in mente che potrebbero esistere acquedotti i grado di dare più da mangiare che da bere. Non si poteva mai sapere.
Per uniformarsi al nuovo clima auto referenziante, il Comune fece allestire nei giardini pubblici due abitacoli ben visibili: uno per la lupa capitolina e uno per l’aquila imperiale. Il recinto per le oche del Campidoglio era invece in riva al lago, non lontano dall’ufficio dei Vigili Urbani opportunamente denominati Pretoriani: un sito dove, come nei Campi Elisi, sembrava sempre l’ora del tramonto. Alcune signore incominciavano intanto a chiedere agli istituti di bellezza uno speciale trucco chiamato “a pelle d’oca”. Si trattava delle medesime dame convinte che il “pollo alla diavola” fosse un gallo posseduto dal demonio.
Qualche esponente municipale si affrettò perfino ad adeguare il proprio operato alle abitudini abbastanza consuete nelle Amministrazioni romane d’altri tempi, s’intende. Queste, così si diceva, non ascoltavano infatti mai le suppliche dei sudditi, come allora le proposte erano definite. A tale proposito, per la verità, un po’ di colpa era attribuibile alla stampa. I giornali presentavano sovente infatti le Amministrazioni dei Paesi nordici come molto attente alle richieste dei cittadini. Per differenziarsi da tali abitudini consolidate tra i “barbari” bisognava dunque fare per logica il contrario. Non importava se l’urna elettorale assomigliava in tal modo a un esempio di raccolta differenziata dei rifiuti urbani, dove i voti diventavano semplice scarto.

Alcuni studenti, poco preparati in fatto di storia romana, non vedevano una similitudine tra le consuetudini dell’antichità e certi comportamenti moderni. Furono dunque necessari alcuni chiarimenti dell’insegnante. Il quale spiegò:

1) Giulio Cesare è sempre stato presentato come grande eroe e uomo di straordinarie virtù umane. Plinio il Vecchio gli attribuisce un milione di morti, comprese le vittime del genocidio dei Veneti di Bretagna, durante le campagne nella Gallia Transalpina. Per meglio comprendere le proporzioni si rammenta che la popolazione complessiva dell’Impero si aggirava allora su 4.023.000 cives. Euripide sostiene che Giulio Cesare abbia inoltre stabilito:”Se occorre violare il diritto per regnare, lo si faccia. In tutti gli altri casi si rispetti la Giustizia”. Bisognerebbe tenerne conto per eventuali immedesimazioni.

2) Come è noto , Giulio Cesare fu assassinato nelle famose Idi di marzo. - Marco Tullio Cicerone sostiene , nella seconda filippica, che Marco Antonio era il braccio destro del defunto. Tra le abitudini del personaggio c’era la frequenza di “Comites nequissimi”, cioè di pessime compagnie. – nella sesta Filippica si legge poi che Marco Antonio aveva un grande seguito. Pazienza per i Littori, che oggi sarebbero la cosiddetta scorta. Per un politico come lui si può comprendere. Meno opportune sembrerebbero le lunghe colonne di carri coperti, debitamente attrezzati per il trasporto di leoni, prostitute e parassiti durante le lunghe trasferte nelle Provincie. Le popolazioni dell’Italia annonaria (così erano chiamate le regioni che pagavano l’annona, cioè la tassa per il sostegno della capitale) dovevano assicurare loro accoglienza e generosità, invece che riceverli con torrenziali risate. Si comprende perché poi cotali ospiti non se ne volevano più andare. Non importava se i costi, i disagi e le regalie comportavano impoverimento delle sfortunate comunità. In una moneta d’argento del 32 d.C. Marco Antonio è raffigurato con gli occhi sporgenti, il naso aquilino, il collo taurino. Tutto l’opposto di come appare nel famoso film di L. Mankiewics del 1963. Se ne tenga conto per eventuali celebrazioni.

3) Dopo la morte del saggio Imperatore Marco Aurelio, salì sul trono di Roma il figlio Commodo, nato nell’anno 161d.C. – La storia lo descrive come l’opposto del padre, visto che già all’età di dodici anni fece arrostire nel forno uno schiavo che gli aveva preparato un bagno troppo caldo. Commodo si teneva inoltre cari i peggiori soggetti e quando questi gli furono allontanati, si ammalò. Durante il suo governo mandava inoltre i suoi complici a comandare nelle Province. Questa ombra non gli impedì di farsi divinizzare nelle monete del 188 – 189 d.C. a spese dei sudditi ignari. Tra le peggiori manifestazioni della sua pessima amministrazione vengono ricordati molti casi di peculato e malversazione.
Commodo sperperava sistematicamente il denaro pubblico per allestire combattimenti di gladiatori sia nell’arena che nei parchi pubblici.
Si sappiano regolare certe Amministrazioni.

I giovani si chiesero se, qualora fossero state imitate le inclinazioni di Cesare, Antonio e Commodo in fatto di norme di comportamento, spese pubbliche e spettacoli di gladiatori, ne sarebbe veramente conseguita una bella immagine per le Istituzioni.

Nerio de Carlo