lunedì 8 aprile 2013

LA VISITA DEL GENERALE DI FANTERIA CARMAGNOLA PER LA DEFINIZIONE DELLA LINEA DI CONFINE CON L’AUSTRIA



( da pag. 94 a pag. 95 del libro “Memorie di un Maresciallo dei Carabinieri 1867-1967  di Luigi Borsoi a cura di Mario Borsoi)



Al crepuscolo di uno di quei giorni, una sera verso la metà di agosto, si presentò in caserma il Generale di fanteria Carmagnola e chiese al brigadiere Menossi se nel paese vi fosse un uomo conoscitore di quei monti e specie della linea di confine con l’Austria per servirgli da guida, poiché in previsione di grandi manovre, in quei siti, desiderava visitare e conoscere quei luoghi. E specie i confini che non erano segnati; e anche noi venimmo, così, a conoscenza interpellando i proprietari che ci indicavano fino a dove pagavano l’imposte all’Italia e per quale superficie all’Austria.
Il brigadiere rispose che in luogo non c’erano persone a cui fare affidamento, perché coloro che non trovavano lavoro in paese, anziché scendere in Italia, salivano le valli e andavano in Austria. E soggiunse: “Se desidera metto io a sua disposizione un carabiniere che conosce i sentieri e i confini”.
Il Generale disse: “La missione domattina alle cinque, sia pronto e partiamo”.
Fui comandato io. Parmi fosse il 12 agosto.
Prendemmo la via del sentiero sopra il Cordevole, Laste, da dove specie con i binocoli si vedeva in territorio Austriaco la strada che da Colle S. Lucia, passano sotto il Col di (?) si dirigeva a Livinalongo e Andras e più in basso di questo paese un forte di cui non ricordo il nome. Proseguimmo per Col Toront dove sostammo per la colazione a base di pane, cotolette di vitello e formaggio e poco vino che l’attendente del Generale portava in sacca. Proseguimmo poi pel passo Fedaia con difficoltà poiché i segni del pericolo sul sentiero, in forte pendio sul monte, erano stati cancellati dalla neve caduta durante la notte. Proseguii io davanti sul segno della piccola ondulazione e senza inconvenienti giungemmo al passo Fedaia confine con l’Austria, ai piedi del ghiacciaio della Marmolada. Scendemmo poi alla Malga Ciapela e passati i serrai di Sottoguda, erano circa le ore diciotto, mi congedò ringraziandomi.
Egli vestiva l’abito borghese e così il suo attendente, e non desiderava essere visto, con me in divisa, arrivare a Caprile. Durante il percorso mi ha rivolto tante domande e seppi rispondergli con tanta franchezza.

XXXIX – LA VERITA’ SULLA CATTURA DEL BRIGANTE MUSOLINO




dal libro “Luigi Borsoi   MEMORIE DI UN MARESCIALLO DEI CARABINIERI (1877-1967)”  pag.86-88
                                                               a cura di Mario Borsoi             


                                      
Prima di giungere a questo punto della narrazione delle mie memorie, avevo già descritto alcuni particolari che conseguirono l’arresto del brigante Musolino e per brevità qui ne allego una copia.

Sul  “Corriere della Sera” del 29.11.1956 è stata riportata la notizia della morte dell’ex carabiniere Angelo Moretti che partecipò alla cattura del brigante calabrese Giuseppe Musolino dopo uno scontro a fuoco, nel corso del quale il brigante era rimasto miracolosamente illeso.
Per la verità senza tema di smentita, riferisco che il brigante Musolino non fu arrestato in uno scontro a fuoco, ma in circostanze che qui di seguito descriverò.

In un pomeriggio avanzato dell’autunno dell’anno 1901, i carabinieri, allora miei colleghi ed amici, Feliziani e La Serra stavano eseguendo una delle normali perlustrazioni su una strada a pochi chilometri da Acqualagna – mandamento di Fossombrone – quando a circa 20 metri videro comparire, e venire loro incontro, un individuo sconosciuto apparentemente forestiero e creduto un comune vagabondo.
Il carabiniere Feliziani, di carattere sempre gioviale, specie quando si trovava i caserma, rivolgendosi al vagabondo gli disse: “Ehi, dove vai?”. Lo sconosciuto, approfittando di una stradina laterale che portava sull’aia di una casa colonica, dapprima allungò il passo, poi, si mise a correre. Attraversò l’aia proseguendo per la campagna, leggermente in pendio e coltivata parzialmente a vigneto, e dopo essere andato a sbattere con il petto contro un filo di ferro, posto a sostegno delle viti,cadde ed estrasse un pugnale.
I carabinieri appena lo videro deviare dalla strada, e correre, si precipitarono all’inseguimento e riuscirono a bloccarlo.
Il Feliziani, più veloce, riuscì in un attimo a saltargli addosso afferrandogli la mano armata prima di dargli il tempo di prendere posizione, salvandosi, così, da una reazione che avrebbe potuto avere conseguenze gravi. E subito giunto il collega La Serra lo disarmarono e lo ammanettarono.
Perquisito, gli trovarono pure una pistola e nelle tasche un portafogli contenente circa 400 lire che propose in regalo ai carabinieri se lo avessero lasciato libero. Non aveva documenti d’identificazione.

Sull’aia della casa vi era una contadina che udì il fuggitivo dire, mentre gli passava davanti: “I carabinieri”. Quella donna poté assistere alla drammatica cattura del criminale più temuto di quel tempo.

Tradotto in caserma e perquisito più minutamente gli fu trovata appesa al collo una medaglietta  con l’effige della Madonna d’Aspromonte. Chiestogli le generalità rispose di essere “Nicola Colafiore” di Pescara.

Il Feliziani, dopo due anni d’ansiosa attesa, aveva, qualche giorno prima, ottenuto una breve licenza da trascorrere in seno alla propria famiglia e godere un po’ di libertà: perché in quei tempi non vi era la libera uscita, ma soltanto servizio di caserma; vinse la resistenza fatta dal suo superiore e partì  per il suo paese,credo in Umbria, il mattino successivo dell’avvenuto arresto del  “brigante Musolino”.

Il Comandante della stazione telegrafò allora a Pescara per informazioni e la risposta fu negativa perché in quel paese il nome di “Nicola Colafiore” era sconosciuto.
La medaglietta, il linguaggio ed i connotati rilevati dal bollettino delle ricerche diedero forte motivo di sospettare che l’arrestato fosse il “brigante Musolino”. Furono così invitati ad Acqualagna il Sindaco d’Aspromonte ed un congiunto di Musolino: il Sindaco, dopo un confronto, confermò; ed il congiunto negò di riconoscerlo. Solo due o tre giorni dopo ammise d’essere Musolino, e disse che fu:”…chillu filo…” a tradirlo.
Al carabiniere Feliziani, dopo due giorni che si trovava in licenza, si presentò il medico del luogo per dargli visione dell’articolo di un giornale che confermava che i carabinieri di Acqualagna, qualche sera prima, avevano arrestato un individuo armato di pugnale e pistola sospettato d’essere il pericoloso “brigante Musolino”. Il Feliziani rispose che erano stati lui e il suo collega La Serra ad operare quell’arresto. Poche ore dopo il Feliziani riceveva telegrafico ordine di rientrare immediatamente alla stazione, essendo stato identificato in Giuseppe Musolino l’arrestato.
Per tale operazione  a Feliziani e La Serra fu concesso un premio di 1000(mille lire) depurato da r.m.; rimasero da dividersi lire 925, e furono messi a regolare corso d’istruzione per l’avanzamento al grado di Vice Brigadiere.

Io, allora, appartenevo alla stazione d’Isola del Piano, con giurisdizione quasi limitrofa a quella d’Acqualagna. Per motivi di servizio avevo frequenti contatti con i predetti carabinieri, e qualche settimana dopo l’arresto, con Feliziani, ci trovammo di rinforzo ad Urbino sulla piazza, poco piana, di fronte al monumento di Raffaello Sanzio mi disse: “Quando stavo per saltare addosso a Musolino vidi luccicare il pugnale e pensai – domani devo partire per la licenza ed ora questo mi uccide.- Poi aggiunse: “Nel compiere il viaggio di ritorno dalla licenza i viaggiatori del treno informati, non so da chi, che fui io ad arrestare il brigante Musolino, si affollarono nella vettura dove avevo preso posto e volevano stringermi la mano; sempre ne arrivavano di nuovi e tutti bramosi di particolari, tanto che quando scesi dal treno ero fortemente rauco”.

Nulla di più posso dire, anche perché qualche tempo dopo fui trasferito da Isola del Piano a Senigallia , e successivamente cambiai Legione e persi, così, il contatto con i miei simpatici amici Feliziani r La Serra, dei quali ho sempre serbato un affettuoso ricordo.
Quest’anno compio 80 anni, e ringraziano Iddio godo buona salute e quanto alla memoria ricordo fatti avvenimenti di oltre 55 anni fa come fossero recenti.

San Giacomo di Veglia, 2 gennaio 1957
                                                                                               Maresciallo Maggiore dei CC. In pensione
                                                                                                                                                                   Luigi Borsoi

LV – LA PERMANENZA IN SICILIA L’ESCURSIONE SUL CRATERE DEL VULCANO ETNA



Dal libro “Luigi Borsoi  MEMORIE DI UN MARESCIALLO DEI CARABINIERI(1877-1967)pag.110-119
                                                a cura di Mario Borsoi


                                        

Nicolosi lì 23 agosto 1911

Dal giorno 12 corrente dimoro in questo paese che trovasi a Nord ed a 15 chilometri da Catania. È popolato da circa4000 persone che, durante l’estate, arrivano perfino a 4500 per l’affluenza dei villeggianti che vengono a respirare quest’aria fresca, in quanto il paese trovasi a 720 metri sul livello del mare.
La popolazione è di carattere piuttosto mite e poco dedita ai reati. Un quinto degli operai si può calcolare che trovasi nelle Americhe per ragioni di lavoro. Gli altri rimasti si danno al trasporto di combustibile e di neve durante l’estate, ed al lavoro nei vigneti risparmiati dalla lava. La classe agiata, dopo la consueta gita mattutina a cavallo fatta ai loro possedimenti, si accalca al Circolo chiamato dei Civili dove qualcuno dà una passata al giornale mentre i nove decimi giocano a carte  ed a biliardo fino a ora tarda della sera.
Non vi sono industrie e soltanto una quarta parte della superficie è coltivabile, mentre l’altra è coperta da uno strato di lava che varia dai 5 ai 15 metri.
Nella giurisdizione di questo Comune trovasi il terribile vulcano Etna il quale, se nei periodi di quiete è bello a vedere, durante le eruzione incute spavento alle popolazioni. La lava, che nei giorni di eruzione esce dalle bocche che per l’occasione si aprono, durante il suo percorso semina miseria ovunque passa. Nessun riparo giova a frenare la lava. Le case che incontra vengono schiacciate; gli alberi, siano pure grossi, al più piccolo contatto con la lava cadono e, riversandosi su di essa, scompaiono in una sola fiammata.
Questo paese, normalmente monotono, durante le eruzioni prende l’aspetto di una città in festa. Se i danneggiati piangono e urlano, i loro lamenti vengono coperti dalle risate e dal vocio dei curiosi che da tanto lontano partono per portarsi sul posto del terribile spettacolo.
Nei tempi normali difficilmente si vede un’automobile a Nicolosi, ma durante le sciagure che lo colpiscono le sue vie sono affollate di quei veicoli tanto veloci che da ogni parte d’Europa portano i loro proprietari sul luogo del dolore e del gaudio.
Fin dal primo giorno che giunsi a Nicolosi fui animato dal desiderio di recarmi alla bocca del cratere principale, ma per portarsi colà non basta il desiderio: occorre pure un mulo, una guida e una discreta provvigione di viveri. Si tratta che, con un mulo, ci si impiega non meno di otto ore per giungere al detto cratere che si trova a 3303 metri sul livello del mare. Oggi però ho tutto preparato e domattina alle ore quattro, se i miei progetti non verranno guastati, assieme ad un carabiniere e ad altri sette signori comincerò l’ascesa.
Ecco che l’alba del giorno 24 agosto 1911 è imminente.
L’appuntamento è di trovarsi alle ore quattro al principio della Via Etna; difatti, all’ora prestabilita ci troviamo tutti pronti.

I componenti della comitiva sono: BOGGILERO ENRICO studente universitario; LONGO SALVATORE; MONTESANO ANTONIO           possidente; ARENA LUIGI possidente; CUSCUNA’ ANTONIO studente; BORZI GIUSEPPE possidente; il carabiniere RIBBERA ed il sottoscritto BORSOI LUIGI.

Il cielo terso e la temperatura fresca e senza vento mi fanno sperare che la gita riuscirà splendida.
Mi viene affidato un mulo che monto con poca disinvoltura, ma in ogni modo mi reggo sopra.
Per circa mezzora la strada Etna, piuttosto larga a fondo naturale, ha uno strato di circa 20 cm.  di detriti di lava fini quanto la sabbia ed è fiancheggiata da muri bassi e da vigneti.
L’animale che mi porta dopo breve tempo comincia a sbuffare perché gli zoccoli suoi non trovando resistenza su quella specie di arena lo costringono ad una maggiore fatica.
Proseguendo per la via omonima, dopo mezzora trovo un sentiero non troppo facile praticato in mezzo alla lava eruttata nell’anno 1886. Questo sentiero peggio non potrebbe essere. È lungo circa sei chilometri e mi meraviglia come il mio mulo abbia l’abilita di camminare con tanta franchezza. La lava che lo fiancheggia è di colore nero, spugnosa stesa quasi orizzontalmente. Ai lati si estende dai tre ai quattrocento metri. Questa lava nel 1886 mancò poco che raggiungesse Nicolosi. Gli abitanti a quell’epoca, invasi da giustificato spavento, già iniziato a svuotare le abitazioni per mettere in salvo le masserizie e qualcuno vendette le proprie suppellettili a prezzi irrisori.
Finalmente lascio la lava e passo su un sentiero sabbioso fiancheggiato per circa mezzora da vigneti. Più avanti trovo la Casa Cantoniera e poi verso le otto arrivo ai depositi di neve. A questo punto lascio il mulo per percorrere le altre tre ore di viaggio a piedi. A tutta la comitiva non rimane che un mulo per il trasporto del vettovagliamento.
Percorro mezzo chilometro a piedi ed ecco mi trovo alla bocca del cratere che nel 1886 eruttò la lava nel mezzo della quale fu poi praticato il sentiero scabroso per il quale transitai qualche ora prima. Tale cratere è completamente spento. Abbandono questi per portarmi a quelli dell’eruzione del 1° maggio 1910 che sono due. Il primo ha la bocca di forma ovale la cui circonferenza è di 100 metri circa. Il suo fondo va man mano stringendosi dalle pareti ed alla profondità di 30 metri, dove al massimo si può scorgere, presenta ancora una periferia di 20 metri. Ai suoi lati vi sono detriti di colori vari, i più che abbondano sono: il giallo, il bianco ed il turchino. Raccolgo un pezzo di pietra che molto somiglia allo zolfo, ma appena la stringo va in frammenti. Provo ad accenderla ma con esito negativo. Le pareti mandano ancora vapore acqueo, però in piccola quantità. Da questo cratere nel maggio 1910 la lava usciva copiosa tanto da impressionare gli abitanti di Nicolosi. La lava, come da tutti gli altri crateri eruttivi, usciva con una velocità spaventevole, pressappoco 10 metri al secondo e veniva lanciata a forma di zampillo a otto o dieci metri di altezza.
Dopo aver raccolto un grosso pezzo di lava di vari colori, con il proposito di portarmelo nel continente quale ricordo di questa mia gita, lascio questo luogo.
Durante la via che divide il sentiero fra la lava, al cratere che ora ho descritto, mi sono dimenticato di dire che trovai la località di Scafani con una sola casa colonica e con nelle adiacenze un bellissimo frutteto. Più avanti un’altra casa dove, estratta dell’acqua da una cisterna abbiamo bevuto noi componenti della comitiva ed i muli. Più avanti ancora il rifugio governativo, chiamato Casa Cantoniera, munito di cinque cuccette e di sufficienti arnesi di cucina; e subito dopo il cratere suddetto, dopo circa un’ora di cammino, troviamo il rifugio del Club Alpino che è chiuso. E noi siamo privi delle chiavi. Qui siamo a 2200 metri dal livello del mare. Siamo un po’ stanchi ed affamati vorrei dire, perciò ci sediamo all’ombra del rifugio a discorrere, e dopo un breve consiglio di “famiglia”, di cui mi onorano della nomina di Presidente, propongo un piccolissimo rinfresco. La mia proposta non soltanto viene accettata all’unanimità ma anche onorata da un’acclamazione tanto lunga che termina soltanto quando i gitanti ricevono un paio di sardine, un pezzetto di pane e del vino da mettersi nello stomaco, fino a quel momento digiuno.
Tutti mangiano con molta avidità perché, oltre ad essere quasi le ore dieci, questi miei amici sono tutti giovani e robusti. Mentre la bocca lavora, gli occhi non devono perdere tempo, perché questo punto offre qualche cosa di meraviglioso alla nostra vista:
 “Guardando in basso e cioè a sud, vedo Nicolosi prima, Mascalcia poi e finalmente la bella Catania circondata dal mare da un lato e dai stupendi giardini dagli altri. A Sud-Ovest osservo i capoluoghi dio mandamento: Belpasso, Paternò e Adornò. Tutti questi paesi sono costruiti sulla lava che da qualche migliaio di anni vede la luce. Sono circondati da innumerevoli vulcani spenti che si innalzano dai 100 ai 500 metri dai terreni circostanti ed hanno la somiglianza di un cappello con la cupola calata”.
Sono quasi le ore dieci e per giungere alla meta ce ne vogliono ancora due. Noi però facciamo il conto di arrivare soltanto fino all’osservatorio (Casino degli Inglesi) prima di mezzogiorno dove, dopo aver pranzato, ci riposeremo prima di riprendere il rimanente viaggio alla sera e precisamente poco prima del tramontare del Sole.
Nel riprendere il cammino guardo a Nord e vedo la cupola dell’Osservatorio rassomigliante un pallone aerostatico posato sopra una rustica casa e, più in alto, la sommità del cratere Etna che manda fumo. Da ora in avanti, per dove passo e nei dintorni, non vedo uno stelo d’erba né una pianta. Tutto è brullo. La distanza che mi divide dall’Osservatorio, con andatura forzata, la supero in tre quarti d’ora.
La pendenza non fu troppa, né il terreno accidentato ma neppure solido: il piede non trovava resistenza perché c’era tutta sabbia poco più grossa di quella che trovai appena lasciata Nicolosi.
La località dove ora sono transitato è chiamata Pian del Lago. I geologi sono concordi nel ritenere che in tal punto, fino all’Epoca Preistorica, esistesse il cratere principale e che appena apertasi la bocca dell’attuale si sia spento e riempito, col tempo, dei detriti del nuovo.
All’Osservatorio più volte ricordato, sono giunto per secondo. Primo arrivò il Signor Boggilero Enrico, figlio di un professore di fisica, piemontese, però da una ventina d’anni residente a Catania. E poiché manca colui che ha in custodia le chiavi dell’Osservatorio, e non arriverà che fra mezz’ora, io e il Boggilero pensiamo di utilizzare il nostro tempo in osservazioni.
Il mio compagno è molto colto, non ha ancora compiuto 17 anni di età ed ha già ultimato il primo anno di Università: studia chimica. Egli non è la prima volta che vede da vicino l’Etna e le sue adiacenze. Mi invita ed accetto di andare ad osservare due cosiddetti fumaioli che trovansi a 300 metri al lato Nord-Est dell’Osservatorio. Il primo è piccolo, manda il fumo o meglio il vapore assai pressato; la sua bocca è poco più di tre metri di circonferenza, divisa a mezzo da un grosso pezzo di lava. Cautamente avvicino una mano e sento che il calore è insopportabile. Il mio compagno mi dice che il calore di questo vapore varia dai novanta ai cento gradi.
Giacchè un po’ di confidenza è reciproca, azzardo ogni tanto di dire qualche corbelleria, e perciò propongo di non accendere il fuoco e di collocare la marmitta sulla bocca dove si potrebbe allessare la carne e cuocere la pasta. Però, ritiro subito la proposta perché il mio interlocutore mi dice che egli un anno fa, per tentare di fare ciò che io ho proposto, rimase a bocca asciutta: quando la pasta era quasi cotta, un boato gli aveva mandato il recipiente a qualche metro di altezza e per poco non rimaneva vittima di serie scottature.
Il secondo fumaiolo è assai più grande e maestoso. La sua bocca ha circa dieci metri di circonferenza. Mi metto in un luogo in modo da farmi investire dal vapore caldo: il suo odore di zolfo e di ferro è asfissiante. Sento che mi attacca i bronchi e mi rende difficile il respiro. Mi allontano in fretta, sento il viso bagnato e vedo i panni che indosso che gocciolano per l’umidità ricevuta. A qualche metro di distanza osservo ancora quel fumo che, esposto ai raggi del Sole, prende tutta l’apparenza di un arcobaleno.
Vicino ai crateri ora descritti è facile che se ne apra qualche altro, ma tali aperture sono sempre precedute da scosse di terremoto, in modo che il visitatore farebbe in tempo ad allontanarsi.
Il mio amico Boggilero non è mai sazio di camminare, insiste per condurmi a vedere il cratere principale prima di pranzo. Io però riesco a convincerlo a rimandare la visita alla sera, anche perché il suo splendido binocolo lo aveva consegnato ad un altro della comitiva che ancora non era giunto e, senza quello, non si sarebbero potute scorgere le segnalazioni che i carabinieri di Nicolosi avrebbero fatto dalla terrazza della Caserma: giusta la promessa ieri ricevuta. Andiamo perciò all’Osservatorio dove, dopo breve attesa, ci mettiamo a tavolo per consumare il pranzo che, così, merita di essere chiamato poiché molte e buone vivande ci siamo portati ed ora ne proviamo il gusto, ed il sapore è maggiore per il fatto che ognuno di noi dice qualche aneddoto così da suscitare il riso sulle labbra di tutti. Sono quasi le ore 14.00 e ci rechiamo a letto per un paio d’ore.
Sono le 16.30 e riprendiamo l’ascesa per un sentiero non troppo facile, ostacolato da lava di ogni dimensione e da una poltiglia color cenere coperta da un leggerissimo strato di allume di rocca, sodio e altro formatosi dai vapori che escono dal suolo tiepido. Ciò indica che siamo poco distanti dal cratere, poiché quel terreno di riflesso ne risente dal calore.
Eccoci, dopo le ore 17.30. Mi trovo sull’orlo della bocca del terribile vulcano. Colui che non l’ha mai vista non può formarsi un’idea dello spettacolo che presenta questa bocca infernale. Ha un diametro di circa 600 metri. Io ed altri due miei compagni passiamo, a salti, sopra i vari crepacci dai quali si sprigiona fumo e vapore acqueo molto puzzolente e ci portiamo sull’orlo della bocca del cratere dove ci sdraiamo a terra e sporgiamo il capo all’interno dello stesso.
Le sue pareti a picco sono di molti colori, ma i più marcati sono quelli dello zolfo, del ferro ed il cenerino. È da queste pareti che maggiormente fuma. Dei momenti il mio sguardo si spinge fino a 50/60 metri di profondità, ma tutto ad un tratto vengo investito dal fumo che mi costringe a coprirmi il viso con un fazzoletto, per non morire asfissiato. Odo continui boati che partono dalle viscere del cratere. I rombi sono seguiti da una specie di fischi di vento, però di una potenza impressionante e pare che curiosissimi temporali si scatenino. Il fumo, oltre che ad impedirmi di vedere, mi attacca i bronchi e mi impedisce il respiro. Per questo motivo, e per obbedire alle insistenti preghiere dei miei amici rimasti a distanza, mi ritiro, preceduto dagli altri due, da quella pericolosissima posizione. Infatti, il terreno che mi sorregge è pieno di fessure e con una piccola scossa di terremoto, facile ad avvertirsi in questo luogo, potrebbe crollare e travolgermi nell’inferno ancora prima di morire. Qualche geologo ritiene che la profondità del cratere raggiunga i cinque chilometri e qualche altro anche i cinquanta.
Il cratere principale fino ad un chilometro dalla bocca è pieno di lava incandescente che bolle continuamente in quella specie di caldaia naturale. La lava si alza e si abbassa come fa il latte in bollitura in una pentola. Ricordano che in tempi di eruzione sia salita fino a pochi metri dalla bocca ma che mai abbia traboccato. La lava esce per altre bocche che si aprono ai fianchi del monte, e sono chiamate bocche eruttive. Dal cratere principale escono invece molti massi del peso di pochi chilogrammi, qualcuno può arrivare perfino ad una tonnellata.
Questa specie di bombe infuocate e pregne di gas vengono lanciate a considerevole altezza,perfino a mille metri sopra il cratere. In aria parecchie scoppiano mandando i frammenti in varie direzioni, mentre quelle che rimangono intere vengono inghiottite dalla bocca che le ha eruttate.
Faccio una cinquantina di metri, fino a pochi metri dal cratere, su un terreno umido e caldo. La superficie è coperta da un leggero strato di allume di rocca, potassa, sodio, zolfo ed altre materie che non conosco formatesi dai vapori che quel terreno emana. Arrivo su uno spazio di circa 200 metri di larghezza che divide il cratere principale da quello di circa 160 metri di diametro, formatosi il 26 maggio 1911. Più oltre non mi arrischio di procedere per la difficoltà del respiro e per il grave pericolo che si presenta. Qui mi trattengo poco più di mezzora ed assisto al tramonto del sole. Intanto che osservo vari paesi della provincia di Siracusa, dei quali non posso avere il nome, tutti posti in alture verso Ovest, vedo i monti frumento e rosso. Comincia a farsi buio. Sporgo un’altra volta il capo nel cratere ed osservo uno splendore impressionante prodotto dalla lava incandescente.
Assieme ai miei compagni prendo infine la via per portarmi all’Osservatorio, dove giungo a notte fatta.
Mi metto a tavola assieme ai miei compagni, ma tutti mangiano con poco appetito a causa della stanchezza ed anche perché il cambiamento di atmosfera causò a tutti noi una leggera indisposizione. Sono le 23.00, vado a coricarmi perché ne ho assoluto bisogno.
Alle ore 3.oo del 25 agosto 1911 mi desto e subito sveglio i miei compagni di viaggio. Soltanto 4 si sentono in grado di seguirmi per risalire al cratere, lato Sud-Ovest, gli altri sentono un po’ di febbre, dolori di capo e alle gambe e di conseguenza desiderano rimanere sulla cuccetta.
Guardando la mèta mi sembra impossibile salire da questo lato, sia per la ripidezza del monte ed anche perché lo strato di composizione chimica sulla superficie è molto più pronunciato che altrove. Questo significa che il monte da questa parte è molto vaporoso e di conseguenza fangoso. Mentre faccio queste riflessioni cammino seguito dai miei compagni. Mancano soltanto circa 100 metri per arrivare alla mèta ed il pericolo di scivolare aumenta ad ogni passo, benché il riguardo di appoggiare le mani non esista. Mi faccio pallido ed i miei compagni, benché coraggiosi, sono come la cera per la paura di una caduta che sarebbe funesta. Evitiamo di guardare in basso per non vedere il pericolo che ci minaccia. Tento di fare dei gradini con i piedi, ma peggio che mai perché, rotta la superficie che è abbastanza sottile, sotto trovo fango un po’ resistente ma caldo. A tutta la mia energia unisco quella dei miei compagni e, aiutandoci reciprocamente, superiamo le difficoltà e arriviamo, poco prima della levata del Sole, al cratere.
Anche il posto che scelgo per osservare è pericoloso, perché la superficie non è piana nemmeno per un metro. Spingendomi in avanti precipiterei nel cratere; trattenendomi all’indietro scivolo dal monte. Oltre a ciò bisogna tener pure conto del vento che spira alla sommità di un monte alto 3300 metri. In ogni modo assisto alla levata del Sole e dopo aver osservato ripetute volte l’interno del cratere, e chiamato all’attenzione dai boati, rombi e fischi, volgo lo sguardo verso Est e vedo l’isola di Malta e verso Sud-Est le coste della Calabria.
Mi sembra di aver visto abbastanza, sono già le ore 6.30, comincio la discesa per ritornare all’Osservatorio per via diversa dalla prima, e senza molte difficoltà raggiungo i miei compagni che sono ancora a letto.
Ritornato all’Osservatorio prendo un po’ di cibo e verso le ore 9.30 riprendo la via per restituirmi a Nicolosi, tenendomi però ad Est della via percorsa ieri. Dopo mezz’ora di cammino mi trovo sopra la Valle del Bove. Mi fermo circa venti minuti a contemplare le bellezze della natura. La valle omonima è larga circa 6 chilometri e lunga quasi 15: per la sua forma e per le sue tracce lasciate, fa rilevare che ivi fino dai tempi preistorici esistesse un vulcano grandissimo. Difatti alle sue pareti noto grandissimi spacchi riempiti di lava. Nelle adiacenze un’infinità di crateri eruttivi ora spenti, la lava dei quali dopo aver percorso 20 chiloòetri raggiunse il mare.
Spingendo i miei sguardi ad Est vedo i paesi e i capoluoghi di mandamento: Trecastagni, Zafferana, Acireale e a Nord-Est Linguaglossa e Castiglione. Ora ritengo di aver visto abbastanza e, siccome oltre il mio desiderio di ritornare a Nicolosi sono anche le mie forze quasi esaurite, riprendo la vecchia via e senza curarmi di altro, proseguo diritto diritto a capo chino.
Finalmente assieme al carabiniere ed al Signor Boggilero, alle 17.00 circa, giungo a Nicolosi, stanchissimo ma contento per aver fatto oltre al viaggio di piacere anche un viaggio di istruzione. Non avrei mai creduto, per aver sentito raccontare o leggere nei libri, che la natura presentasse tante varietà.
Gli altri compagni giunsero a Nicolosi un paio d’ore dopo  il mio arrivo.

Nicolosi lì 25 agosto 1911                                                                                                   
 Luigi Borsoi



NICOLOSI

Verso le ore 1.00 del 9 settembre 1911 fui destato da una forte scossa di terremoto. Fattosi giorno in paese si era subito propagata la notizia che l’Etna era in eruzione. Da Nicolosi si vedeva uscire abbondante fumo e cenere dal cratere principale, mentre i crateri eruttivi, circa 50, si erano aperti verso Linguaglossa, molto distanti da Nicolosi. Dai crateri eruttivi provenivano forti rombi che davano l’impressione di un continuo e forte cannoneggiamento.
Dopo otto giorni di eruzione fu calcolato che dal cratere principale fossero usciti 125 milioni di metri cubi di cenere e dai crateri eruttivi 175 milioni di metri cubi di lava.

Nicolosi lì 25 settembre 1911
                                                                                                                                                  
 Luigi Borsoi

MEMORIE di un Mar. dei carabinieri (1877-1967)