domenica 8 agosto 2010

Nel Tuo ricordo

ZIA MARIA
(la tua eredità)

Passavo il cancello e venivo a trovarti
sedevo ad un tavolo per ascoltarti!
Mi guardavi negli occhi
con aria smarrita
e mi raccontavi le illusioni
della tua vita:
gli affanni, i dolori,
le gioie perdute per misere cose
non possedute.

“Meschina”, tu fosti qui in terra
alla ricerca di un’ora fraterna!
Venivo a trovarti e mi desti un consiglio
nelle ore più tristi
del tuo lungo travaglio.

Ti vedevo vagare con l’occhio perduto,
alla ricerca di un giorno smarrito.
Dentro al tuo cuore
Disilluso,
allo sbocciar della nuova stagione,
tu non cercavi che un giorno d’0amore.
Ora sei là
a riposare tra i fiori
lasciandoci qui i tuoi giorni migliori
tra gioie e dolori.

LUNGO LA VIA

Cammino.
All’imbrunire nell’aria fredda non sento più
l’odore di crisalide che t’avvolgeva le narici
l’urlo della sirena, il vociare scanzonato
dei fanciulli
e il chiassare delle donne all’uscita
che riempiva l’aria.
Ma sento ancora quei passi frettolosi
e irregolari lungo la polverosa strada.
Vedo ombre di tre, due, quattro persone
avvolte in scialli neri
sono loro.

Mi passano accanto le narici mi soffocano.
Le guardo:
un’esile mano gonfia
un’altra ne vedo lessata, cerea
e un’altra come fosse graffiata
che sanguina ancora …

Occhi cerchiati, labbra socchiuse
fiati sbuffanti, capelli umidi-fumanti
scalpitio di zoccoli.

Pochi passi ancora
sono davanti casa.
Ricordi

QUANDO IL RICORDO SI FA POESIA.


I ricordi della prima giovinezza sono di solito quelli che una persona ama proporsi con più tenerezza durante le diverse tappe della propria vita.
Questo, non tanto per i fatti che l’hanno vista partecipe di questo o quell’evento, ma principalmente per come il suo animo e la mente, non ancora distorti da modelle consumistici, si siano sentiti coinvolti nella semplicità dei sentimenti che hanno così impresso, nella sua memoria, l’indelebile ricordo di quel vivere ora trascorso.

Così, i ricordi delle molteplici situazioni della vita entrano a far parte della nostra cultura attraverso un sentimento. S’imprimono, vivono nel tempo che scorre sopiti in noi, e in noi ritroveranno, nel presente futuro, un senso all’esistere, all’esserci per un successivo avvenire.
Se poi sono richiamati alla memoria da quei brevi attimi d’intimità che la persona, a volte, sente ridestarsi in lei per un confronto con il presente – e perché no, con un velato senso di nostalgia – spesso l’aiutano a maturare, in quei momenti in cui l’animo si sente svilire ma non sopraffare da un vivere consumistico, e a cercare così, come fosse un bisogno vitale, un significato che abbia valore per dare, nei successivi passi, una nuova impronta al proprio agire nel confronto d’ogni giorno: l’ideale da imprimere alla propria esistenza, come meglio spenderla.

E’ un dialogo che spesso si compie in ognuno di noi e che avviene nella nostra mente con stati d’animo diversi e nei momenti più inattesi della nostra quotidianità; come se questa – la mente – fosse attratta da uno schermo velato e svelato dal sovrapporsi delle stagioni, e da una mano invisibile che fa ripercorrere e rivivere nel nostro essere anche tutto un mondo di sensazioni ancora viventi in noi: scordate, forse, ma non svanite; e fossimo noi – e lo siamo! – bisognosi d’ascolto d’intima riflessione, di confronto nonché di esaminare quel segreto colloquio che, dispiegandosi come da un libro, dalla voce dell’intimo silenzio, ci distingue e ci unisce nel nostro presente fondendosi nel passato.
Un colloquio fatto sul filo invisibile dei ricordi che, seppure siano di un passato oramai trascorso, hanno un loro significato che non si disgiunge dal confronto con il presente. Un passato al quale rivolgere le nostre domande fatte di certezze ed inquietudini a volte profonde,

Così ti puoi ritrovare sulla via di casa ripercorrendo, nel tuo pensiero, quelle due strade parallele che ti riconducono al punto d’incontro che ci riunisce all’infinito. E dall’intima voce del silenzio, camminando in una fredda sera, sentir riaffiorare un mondo famigliare: quello del tempo delle “Filandaie”.

Un modo che era anche il mio mondo e al quale mi sentivo, nell’intimità di fanciullo, vicino: con affetto. Un mondo che di tanto in tanto rivive venendo da un passato che non è mai trascorso, perché ancora vivente in me.
Di giorni vicini, seppure lontani nel tempo, fatti di sorrisi, di amarezze e speranze; e dove la vita sebbene non prospera di beni come oggi, era amata per quello che ci dava.

Da quel profondo mare che vive, ed esiste nell’animo umano, rinascono le parole d’un sentimento che, trascritto in brevi lettere e ricadendo sulla superficie di un foglio bianco, ridanno vita a un susseguirsi di sensazioni, sentimenti, come una foglia che portata dal vento, cadendo su uno specchio d’acqua, dà vita a quei cerchi concentrici che rinascono gli uni dagli altri: così, come il ricordo delle nostre esperienze passate. Si fanno poesia:

INTRODUZIONE

Ciò che è scritto con il cuore si legge con il cuore, dimenticando la ragione dell’uomo che è parte di noi per ritrovare , così, nell’intimo nostro più segreto, l’ingenuità di un bimbo assopito, dimenticato o lasciato morire.

Scrivere con il cuore: significa cogliere dal proprio intimo più profondo le voci della natura, anche le più nascoste e segrete, per farle vivere in noi e con semplicità di bimbo amarle.
Coglierne il significato con l’animo: significa donare, non già quello che si ha in sovrappiù, ma di più, a chi non ha. Questa si chiama vita..

A volte ciò che scrivo di buono lo scrivo perché c’è qualcosa in me che è più forte di me.
Ma ora non so se dico questo per orgoglio o presunzione, o per lodare me stesso compiacendomi, così, di averlo scritto e di averlo detto.
So di certo che quel qualcosa di buono, che ho scritto e detto, mi apparterrà nella misura con cui io saprò viverlo con tutto il mio cuore nella mente e nell’animo per dimostrare non tanto agli altri ma a me stesso d’esserne degno di averlo ricevuto.
Così io vivo il mio afflato poetico.
Vorrei poter esprimere la mia sincera gratitudine alla poetessa Signora Gina Piccin Dugo, per la sensibilità d’animo e delicatezza che ha avuto accostandosi alla lettura dei miei modesti scritti; e per la Sua generosità intellettuale prestata loro nello svolgimento della prefazione.

Esprimere certi sentimenti, che dentro l’animo mi sono stati ravvivati dalla Sua persona (da un così importante rapporto umano e culturale che, seppure breve, incide ed arricchisce), per me non è cosa facile: il solo grazie non basta. Così come non può esprimere quello che provo la poesia, che mi sta nel cuore, che a Lei desidero dedicare: “L’INEFFABILE”.

Un grazie dal cuore
Mario Borsoi

L'INEFFABILE.

Vorrei poter descrivere i tuoi passi
quando quel giorno entrando
nella stanza buia del mio essere
apristi una finestra.

Quel giorno entrò la luce, l’aria
e il vento portò con sé
fin dentro il cuore mio
le voci, i suoni
la melodia del vivere.

Vorrei poter dipingerti così
come ti vedo.

Darti una voce come io la sento.

Ma il ticchettio delle ore
conduce via con sé
l’umana mia speranza
e non riesco a dir di te
ciò che vorrei.

M.B.

Dipinto di Giancarlo Scotta (la scansione del tempo)

PREMESSA.

Tra questi fogli, racchiusi in un libro, ho raccolto con l’invisibile mano del pensiero le parole scaturite dal fruscio di quel vento che soffiando, tra le corde dell’animo e il battere del cuore, ci rende vivi nei pensieri.

Nessuno è poeta. Tutti, però, siamo partecipi e traduttori di quel grande libro che è la Vita: la Poesia della Vita!

Siamo come le sillabe del grande “incunabolo” scritto dal Demiurgo mai veduto ma che sappiamo esistere; e che ogni giorno viene rinnovato misteriosamente sotto i nostri occhi incantati, estasiati da tanta bellezza creata e donataci con un atto d’amore. A volte anche inorriditi, questi nostri occhi, da ciò che tanta cattiveria umana produce dannosamente contro la Vita stessa.

Questa Vita è un meraviglioso libro dipinto che, sfregiato nei suoi colori, ogni giorno si rinnova davanti ai nostri occhi spesso ciechi e in virtù di quell’amore, che scaturisce dall’animo e dal cuore degli uomini di buona volontà, si ricompone con sempre maggiore frenesia dopo quelle crisi sociali provocate da menti bacate che tanto danno arrecano all’umanità tutta con lutti e sofferenze.

Noi non siamo altro, anche se irripetibili nella nostra originalità, che sillabe maiuscole o minuscole ognuna con caratteristiche diverse che, andando ad incidersi sulle pagine della quotidianità, si tramutano in fatti che nascono da responsabilità diverse che vanno a punteggiare la nostra esistenza. A coniugare quelle parole e a comporre quelle frasi, che tra le righe d’ogni giorno, parlano delle piccole conquiste e delle nostre grandi sconfitte sociali, nonché dell’esile e passeggera precarietà umana, facendoci così intuire a quale futuro potremmo andare incontro, con una volontà priva di vero amore e basata solo sulla sopraffazione che scaturisce dall’egoismo.

Certamente nessuno, pur cogliendo con l’invisibile mano del pensiero l’indescrivibile, l’indicibile bellezza della Vita, come pure la misteriosa drammaticità che sempre ad essa s’accompagna, è mai riuscito a visualizzarla in un dipinto, a trascriverla in parole o a comporla in musica per farla così assaporare e gustare tutta quanta anche agli altri – nel suo essere Vita! -, neppure avendola ammantata con la genialità artistica che suscitando negli animi, nei cuori e nelle menti degli uomini “quell’intuito” ci avvicina e ci fa somigliare all’Artefice, al Demiurgo di tutto. Né io, dunque, ho queste pretese con i miei scritti se non d’essere un amante che furtivamente si disseta al Suo senno: come fosse un bisogno vitale. E ciò che ho scritto è quello che ho cercato e raccolto con l’invisibile mano del pensiero.


***

Si può dire allora che la funzione della poesia consiste nel trasfigurare per mezzo dell’espressione dialettica, nello scritto, il sentimento di un vissuto intimo depositatosi nella vita della persona; e che filtrato attraverso la mente, che ne intuisce la profonda verità, nel verso poetico si sappia poi ridonare al lettore nel suo seducente “simbolismo- rappresentativo” come una tangibile esperienza da vivere. Esperienza dentro la quale il lettore possa ritrovare, tramite quelle parole, un confronto che lo farà sentire più intimo a questo o a quell’altro particolare percependone, così, l’intima consonanza nell’animo.

Si fondono allora, nella lettura del testo poetico, due vissuti originalmente particolari ma non uguali, anche se simili;
Il primo: quello della poesia scritta che, nella sua verità depositata nell’animo, subendo la spinta verso l’esterno dal soffio ispiratore (l’afflato poetico) artisticamente ammantato nella forma dello “scritto-simbolico”, si completa e si riversa fuori dal cuore nel testo compiuto – come l’acqua che sgorga dalla sorgente-. E, come donna ammaliatrice, va a ricercare e a trovare il suo punto di vita e verità, o meglio di coesistenza, con la realtà di chi legge;
Il secondo: è quello della poesia della vita vissuta dal lettore, ma rimasta rinchiusa nell’animo, che ritrova così, attraverso la “rappresentazione-simbolica” del testo poetico, lo stimolo che gli viene dal quel soffio che rivitalizza in lui un vissuto depositato; e che latente nella mente e nell’animo, nella consonanza dei sentimenti, gli fa battere il cuore richiamando alla mente i ricordi e rivitalizzando in lui quei residui del suo vissuto che credeva perduti, o per altri motivi, contingenti il suo vivere, inconsciamente ignorati o rimossi.

Poesia. Come l’acqua che sgorga dalla sorgente, significato antico che sta a voler indicare quel soffio invisibile della vita. E così, come l’acqua che sgorgando dalla roccia va a dissetare la terra inaridita rendendola prospera di mèssi, anche le parole, che vanno a comporre lo scritto poetico, sgorgando dal cuore dell’uomo si riversano sulla coscienza collettiva -come l’acqua sulla terra-, suscitando emozioni e rivitalizzando lo spirito di quelle branchie della società avulse dall’indifferenza.

E ancora poesia nelle sembianze di una donna – perché la poesia è donna! Come la musica, la pittura … - e quindi, come tale, al cuore dell’essere umano si rivolge parlando ammantata nel suo affascinante “inganno-poetico” pieno di verità; e per essere , così, meglio penetrata nel suo “senno-poetico”. Per fondersi più intimamente anche con l’animo dell’altro: e dare frutto.

Tutto nella Poesia della Vita ci riporta ad un confronto, non solo spirituale ma anche biologico, fatto d’equilibri la cui precarietà, se da un lato porta la mente ad avere cognizione dei vari problemi e la consapevolezza, così, che gli uni non possono fare a meno di esistere ignorando le necessità degli altri, ci fa anche comprendere che quando uno di questi equilibri viene a mancare, il germe (…), che inaridisce le coscienze, soffoca e distrugge.

Mario Borsoi

ALLA DONNA MIA


Già si fa notte e per il ciel stellato
ogni cosa divien immensa e pura,
allor che arcani mondi a noi disserra
l’anima in quella Fede
che di mortali cose non s’appaga
diletta mia compagna,
tu vieni, e col tuo far dolce e pensoso
come già al tempo di tue prime gioie,
teneramente narri a questo cuore
l’amor che sta su in alto e vien da Dio.
O vane, o tristi cose della terra.
Tu vieni ognora ai sogni miei più cari,
tanto tanto desiata
e nelle voglie delle notti insonni
sol te pensando e il ciel trovo ristoro
o dolce sposa amata.

A.B.

CAMPANE.



Campane. Odi? … Din … don …dan. Voci a sera.
Un casolare … poi … un lume lontano.
Din … don … dan … Pace: passa una preghiera
Sul mondo che dorme … si … dorme. Arcano.

Fruscio sommesso di foglie d’argento
Sotto la luna piena: acque correnti:
Un usignolo … un lontano concento
Di amore … pie voci … dolci lamenti.

Din … don … dan … : ai morti, al mondo si pace.
La eco risponde nella notte e muore:
Tutto, fratello … tutto il mondo tace …

Din … don … dan … : del riposo, grazie Signore.
Ancora la eco risponde: una fàce
Il mondo pio ha acceso per te … Amore.

Antonio Borsoi

NOTTE FRA TANTE CROCI

Notte tra tante croci
ritornan mesti gli ultimi ricordi
una pagina s’apre di dolore
e sulle deluse speranze
più triste, più solo il mio cuore pioange.
Notte, lento stillicidio di gocce
Che pare un quieto pianto:
piove sulla tua croce come Dio volle,
piove sui ceri che il cuore dolente
ha voluto stadera;
piove sul povero capo piegato,
sulle mani che tergon tremanti
questo mio volto bagnato dal pianto
delle ore perdute.
Piove, piove ancora fin sotto le ossa
Da questo dolente mio povero cuore
mio Dio.

Antonio Borsoi

(Ritratto di frate di Daniele Brescacin)

COMANDI!


Una nota giornalista era stata inviata a tenere una conferenza presso il Centro Culturale. Oggetto dell’incontro era la causa che determinò il crollo dell’Impero di Roma, senza peraltro spiegare se si trattasse della città dei Cesari oppure dei Vespasiani.
L’ultimo tratto del viaggio fu compiuto in autobus. Tutti i passeggeri erano intenti a parlare in continuazione con il telefono cellulare e a far sentire ostentatamente ai vicini i fatti propri. –“Ci sarà poi veramente un interlocutore dall’altra parte?”, si chiedeva la giornalista. L’unica cosa da aggiungere a quanto già noto per la relazione sembrava una frase tratta dal libro di Ben Pastor “Il portatore d’acqua”. L’opera conteneva infatti una spiegazione insolita:”Ci sono tanti occhi azzurri in giro”. Ecco questa frase sembrava un chiarimento originale e fondato per la fine dell’Impero. Così fu infatti.

Dopo la relazione e le usuali congratulazioni ci si dimenticò di parlare del compenso e la giornalista poteva ritornare da dove era venuta oppure, già che si trovava, fare una breve visita al proprio paese natio situato nella stessa provincia. Prevalse la nostalgia e fu scelta la seconda possibilità.

C’era qualcosa d’insolito nei negozi. Sembrava che si parlasse un’altra lingua. Le vetrine, specchio impietoso sia per chi sta all’interno sia per quanti sostano all’esterno, rivelavano commesse ancheggianti e in parte non esenti da cellulite. Molte portavano una specie di sopraveste di lana ampia e magnifica, indicata per nascondere le abbondanti convessità. I maschi indossavano invece la clamide, cioè un mantello affibbiato al collo o sull’omero destro. I pochi apprendisti vestivano l’alicula, una corta avviluppante le spalle. Tutti indumenti che rievocavano l’antichità romana che, nemmeno a fare a posta, era stata l’oggetto della conferenza. Stonavano in generale le moderne calzature al posto delle più adeguate “ caligae”: come jeans sotto un abito da sposa, ecco.
Da sempre veniva inculcata nella gente della città l’idea di un’ascendenza capitolina tanto improbabile quanto ridicola. Genere di consumo per menti deboli, di cui esisteva, a quanto pare, una cospicua riserva. Che cosa ci fosse poi da vantarsi per tale eventualità, non si capisce. Ci vorrebbe una vaccinazione anticaricaturale perché specialmente tra il II° secolo a.C. e l’avvento del Principato il potere romano fu sanguinario. Cominciò con la distruzione di un invidiabile Regno fondato in Spagna da Sertorio, ufficiale del Console Mario che si era salvato dai massacri di Silla. Continuò con Giulio Cesare che, come tutti i vincitori, si scrisse la propria storia. Il personaggio fu responsabile dell’incendio della grande Biblioteca di Alessandria ai tempi di Tolomeo XIII° fratello di Cleopatra. Gli storici lo accusano di genocidio per come si comportò in Gallia dove, secondo Plinio il Vecchio, la sua ambizione provocò un milione di morti su un totale di 4.063.000 cives dell’intera popolazione dell’Impero censita tra la fine delle guerre civili e la concessione della cittadinanza ai provinciali. Non meraviglia che Cicerone abbia esultato quando seppe dell’assassinio di Cesare, come si legge nel quarto libro dei “Familiari”. Non stupisce nemmeno che Goethe abbia sostenuto:”Siamo diventati troppo umani per non provare ripugnanza davanti ai trionfi di Cesare”. Meraviglia poi che Cesare Ottaviano seguisse il suo esempio, oltre a quello di Crasso e Pompeo, per instaurare il Principato.
Il passato non può mai essere una costruzione del presente, il quale a sua volta è solo un indicativo virtuale!- Tutte le motivazioni storiche sconsigliavano l’emulazione(che non è la semplice imitazione del mulo), ma l’insistenza gradita al potere trovò un sicuro pretesto che dimostrava un’ignara ingenuità dei percorsi della storia: la pubblicità, ovvero la permuta di vecchie lune per nuove stelle. Come si sa, le stelle sono i fiori a cinque petali del cielo, occhio di Dio tuttavia non utili al viandante come la luna . Eppure una civiltà dovrebbe distinguersi anche per ciò che essa è capace di rifiutare. In un paese vicino si erano rifiutati di vestirsi alla romana. Avevano preferito la mascheratura da nativi americani, o pellerossa, come anche si diceva.

La giornalista entrò nel negozio che esibiva ancora la vecchia insegna “Generi Coloniali”. La bottega si trovava vicino al recinto degli edredoni, o “anatre dal piumino”, appartenenti al più noto genere delle “Oche del Campidoglio” che, pur essendo glorie pagane, hanno ora come Santo patrono San Martino.

“Comandi !”, disse con voce da baritono femminile la proprietaria paludata con una toga matronale, provvista di rughe e codice a barre e completata dall’autunno delle mani.
“Non comando proprio nulla. Ci mancherebbe altro, specialmente in un contesto che richiama alla mente come perfino l’Onnipotente abbia creato la vittoria quale schiava di Roma.- Desidererei, piuttosto, un piccolo astuccio per riporre un minuscolo cacciavite necessario a stringere la montatura dei miei occhiali”.
“Mi faccia penzare ‘nu poco. Onde stà? Ecco, signò, questo è un agariolo”, rispose la negoziante con una improbabile pronuncia romanesca che sarebbe certamente dispiaciuta al poeta Trilussa, ma che alludeva a una scarsa propensione per il lavoro.
Già, l’argariol, involucro ligneo per aghi: parola rimasta indietro nel tempo e che ci raggiunge.

L’atmosfera non era solo commerciale, ma di costume. Si sentiva un sottofondo musicale dal tempo allegro moderato, che non sarebbe stato male sostituire con l’overture della “Gazza Ladra. Il tutto offriva un’impressione simile a quella che si riporta osservando una torta durevolmente esposta nella vetrina di certe pasticcerie. Le guarnizioni sono chiaramente di gesso: canditi, panna montata, ciliegine , fragoline del bosco e mirtilli perfino, sembrano di grato sapore. In realtà sotto la torta c’è soltanto una vuota anima di cartone.
Fuori una nonnina apostrofava il nipotino per come indossava la maglietta:” ùn vedi questo! Ha messo su il davanti per il didietro!”-

La giornalista si chiedeva come mai si fosse giunti a tanto. In altre regioni una tale conformazione mentale con tanto di rinuncia allo spirito di appartenenza, di cui il linguaggio è testimone, non si registra affatto. E pensava:” Le scelte folcloristiche sono ovviamente libere. Bisognerebbe tuttavia evitare di considerarle come precostituite realtà storiche, magari con finalità didattiche. Ma questi non si accorgono che non saranno mai quello che anelano a diventare. Inoltre non sono più nemmeno quelli che erano. Non sono più nessuno. Sembrano momenti all’ibrido, una confusione, una deriva. Una svalutazione, una finzione permanente, infine. Bisogna proprio che si sentano a disagio nella propria identità naturale, per volersi trasferire in una pelle storica altrui, estranea e lontana, affidandosi a un improbabile segmento di reincarnazione. – Iniziare una nuova vita si potrebbe soltanto dopo la morte. Nel frattempo conviene intanto restaurare più volte la vecchia esistenza, perbacco! “

Man mano che la giornalista procedeva verso la stazione affioravano altre considerazioni. All’adeguamento psichico, per esempio, non sembrava corrispondere, nonostante gli sforzi, la conformazione fisica: le corde vocali e quindi la pronuncia restano quelle che sono, con delusione dei trasformisti. La risposta “comandi “, ancorchè meno usata, rimane annidata nella psiche quale traccia di un’inspiegabile subalternità. In altre parole la carne sarebbe magari forte, ma lo spirito debole. Poiché si contrasterebbe tuttavia con il messaggio evangelico, un popolo devoto non dovrebbe comportarsi a questo modo. A meno che per credere in certe cose non sia necessario ragionare: basta fingere, sforzarsi di credere. In ogni caso il linguaggio che ne risultava, segno di un’incompiuta metamorfosi trasversale, appariva grottesco. Esso non corrispondeva alla struttura e al perimetro del pensiero, ma piuttosto al pigolio della gramigna.
L’intacchinamento l’inguistico diffuso non sarebbe piaciuto nemmeno a Giacomo Leopardi che pure, nonostante tutto, si era lasciato sfuggire la sgrammaticatura “il zio” nello Zibaldone. In conclusione non si poteva provare per questo stato di cose una stima maggiore di quanto esso meritasse. Si trattava infatti di semplice analfabetismo emotivo: incapacità di riconoscere le emozioni degli altri. O peggio: il protocollo di una caduta nell’infantilismo culturale.
Le autorità vedevano di buon occhio la nuova proclività giustamente rappresentata soprattutto dai personaggi vestiti da schiavi, e non da poeti, romani. Sarebbe stato infatti arduo rinvenire un sembiante come quello di Petronio. I vermi solitari delle burocrazie nutrivano così le loro prede per poter fare un banchetto più ricco, come magistralmente si espresse Paulo Coelho nell’opera “Monte Cinque”, in cui si narra come il protagonista si fosse trasformato, con la fantasia, in un poco piacevole corvo. Oh, i corvi! Ce n’erano due, indifferenti e boriosi, solitamente stazionanti tra il Foro ( più appropriato sarebbe chiamarlo foruncolo) e il tempio delle Vestali appositamente ricostruito vicino all’allevamento degli ippocampi. Per il resto il mitico santuario era comunque deserto. Forse per mancanza di materia prima.

E’ pur vero che per uscire da certe situazioni è sufficiente il passaporto. Ciò non significa però che tutti i pettini non vengano al nodo, o qualcosa di simile, come ogni esperto di proverbi sa bene. Rimane legittimo (o meglio legittimo, per adeguarsi alla nuova tendenza traslocata peraltro con successo in un esame di gongorzo pubblico) chiedersi come andrà a finire. La storia e la sociologia insegnano che la consapevolezza di pagare per tutti in cambio di pedate nel sedere, colonizzazione culturale e sfruttamento economico, crea una solidarietà tra tartassati che assurge a elemento identitario. Perfino la gastronomia si adegua. Nei ristoranti locali sparisce infatti gradualmente la gratificante, breve e rosea congiunzione che da sempre qualifica un piacere del gusto insito tra le parole pasta e fagioli, pietanza con un curioso senso di solidità.

La giornalista guardava la gente e pensava a voce alta: “Finirà come l’Impero Romano diamine. Ci sono tanti occhi azzurri in giro “.
La notte di San Lorenzo era imminente e gli abitanti delle stelle cadenti aspettavano che la terra precipitasse, per esprimere a loro volta e finalmente il proprio desiderio: essere e non apparire.

Nerio de Carlo

La luna e il pozzo


- Racconti opitergini - di Nerio de Carlo

Ci sono libri che si vergognano dei loro autori.
Non sembra essere questo il caso di “La luna e il pozzo”, opera dalla poetica copertina. L’autore di questi 24 racconti sembra vivere nelle narrazioni. Forse egli, portatore sano di cultura, le ha proprio inventate per viverci dentro.
“Se vuoi essere universale, parla del tuo villaggio”, sosteneva Leon Tolstoi. E questo ha fatto l’autore, magari usando una prosa un pò “disobbediente” e “disinvolta”. C’è una topografia in parte inconfondibile in qualche pagina. Se non fosse dichiarato che nulla ha riferimento con la realtà e che tutto serve solo a conferire verosimiglianza alla narrazione, si penserebbe il contrario. I lettori sono alla fine come lo stomaco: bisogna dar loro cose che possono digerire. Il verosimile è a questo punto più leggero del reale.
I “Racconti Opitergini” sono uno spazio del silenzio e delle idee, un participio futuro con memoria più lunga di quella degli uomini. E tuttavia uno specchio nel quale non pochi, volendo, potrebbero scorgere l’aurora delle cose oppure riconoscersi, non fosse altro che per abbottonarsi la faccia.
Il mondo di oggi è molto piccolo: per questo bisogna integrarlo con il tempo che fu. Il passato ricorre spesso in queste pagine. Sembra essere una specie di manutenzione della dignità il passato. Lo stato di fanciullezza libera dello scrittore lo esige. Certo: egli non è una figura chiave e non si adatta a tutte le serrature. La sua immunità anagrafica e la sua extraterritorialità personale gli consentono di esprimere una cultura di radici e non di Oche del Campidoglio. Alle radici dell’autore mancherebbe qui, si può esserne quasi certi, solo la mitica “salàta de pissacàn”, vale a dire il comune soffione che tingeva di giallo le rogazioni.
In certi casi le scene narrate non sono vita, ma semplice consumo di tempo. Interviene tuttavia in “La luna e il pozzo” sempre una inaspettata correzione che ci strappa un sorriso o una riflessione. Una goccia di limone basta sempre, in fin dei conti, a schiarire il the opaco e aspro. Sono righe che non chiedono nulla , ma danno parecchie illuminazioni.
Che un libro lasci domande in sospeso è infine la sua maggiore qualità.

Ana Catarina Zusicheva