domenica 8 agosto 2010

COMANDI!


Una nota giornalista era stata inviata a tenere una conferenza presso il Centro Culturale. Oggetto dell’incontro era la causa che determinò il crollo dell’Impero di Roma, senza peraltro spiegare se si trattasse della città dei Cesari oppure dei Vespasiani.
L’ultimo tratto del viaggio fu compiuto in autobus. Tutti i passeggeri erano intenti a parlare in continuazione con il telefono cellulare e a far sentire ostentatamente ai vicini i fatti propri. –“Ci sarà poi veramente un interlocutore dall’altra parte?”, si chiedeva la giornalista. L’unica cosa da aggiungere a quanto già noto per la relazione sembrava una frase tratta dal libro di Ben Pastor “Il portatore d’acqua”. L’opera conteneva infatti una spiegazione insolita:”Ci sono tanti occhi azzurri in giro”. Ecco questa frase sembrava un chiarimento originale e fondato per la fine dell’Impero. Così fu infatti.

Dopo la relazione e le usuali congratulazioni ci si dimenticò di parlare del compenso e la giornalista poteva ritornare da dove era venuta oppure, già che si trovava, fare una breve visita al proprio paese natio situato nella stessa provincia. Prevalse la nostalgia e fu scelta la seconda possibilità.

C’era qualcosa d’insolito nei negozi. Sembrava che si parlasse un’altra lingua. Le vetrine, specchio impietoso sia per chi sta all’interno sia per quanti sostano all’esterno, rivelavano commesse ancheggianti e in parte non esenti da cellulite. Molte portavano una specie di sopraveste di lana ampia e magnifica, indicata per nascondere le abbondanti convessità. I maschi indossavano invece la clamide, cioè un mantello affibbiato al collo o sull’omero destro. I pochi apprendisti vestivano l’alicula, una corta avviluppante le spalle. Tutti indumenti che rievocavano l’antichità romana che, nemmeno a fare a posta, era stata l’oggetto della conferenza. Stonavano in generale le moderne calzature al posto delle più adeguate “ caligae”: come jeans sotto un abito da sposa, ecco.
Da sempre veniva inculcata nella gente della città l’idea di un’ascendenza capitolina tanto improbabile quanto ridicola. Genere di consumo per menti deboli, di cui esisteva, a quanto pare, una cospicua riserva. Che cosa ci fosse poi da vantarsi per tale eventualità, non si capisce. Ci vorrebbe una vaccinazione anticaricaturale perché specialmente tra il II° secolo a.C. e l’avvento del Principato il potere romano fu sanguinario. Cominciò con la distruzione di un invidiabile Regno fondato in Spagna da Sertorio, ufficiale del Console Mario che si era salvato dai massacri di Silla. Continuò con Giulio Cesare che, come tutti i vincitori, si scrisse la propria storia. Il personaggio fu responsabile dell’incendio della grande Biblioteca di Alessandria ai tempi di Tolomeo XIII° fratello di Cleopatra. Gli storici lo accusano di genocidio per come si comportò in Gallia dove, secondo Plinio il Vecchio, la sua ambizione provocò un milione di morti su un totale di 4.063.000 cives dell’intera popolazione dell’Impero censita tra la fine delle guerre civili e la concessione della cittadinanza ai provinciali. Non meraviglia che Cicerone abbia esultato quando seppe dell’assassinio di Cesare, come si legge nel quarto libro dei “Familiari”. Non stupisce nemmeno che Goethe abbia sostenuto:”Siamo diventati troppo umani per non provare ripugnanza davanti ai trionfi di Cesare”. Meraviglia poi che Cesare Ottaviano seguisse il suo esempio, oltre a quello di Crasso e Pompeo, per instaurare il Principato.
Il passato non può mai essere una costruzione del presente, il quale a sua volta è solo un indicativo virtuale!- Tutte le motivazioni storiche sconsigliavano l’emulazione(che non è la semplice imitazione del mulo), ma l’insistenza gradita al potere trovò un sicuro pretesto che dimostrava un’ignara ingenuità dei percorsi della storia: la pubblicità, ovvero la permuta di vecchie lune per nuove stelle. Come si sa, le stelle sono i fiori a cinque petali del cielo, occhio di Dio tuttavia non utili al viandante come la luna . Eppure una civiltà dovrebbe distinguersi anche per ciò che essa è capace di rifiutare. In un paese vicino si erano rifiutati di vestirsi alla romana. Avevano preferito la mascheratura da nativi americani, o pellerossa, come anche si diceva.

La giornalista entrò nel negozio che esibiva ancora la vecchia insegna “Generi Coloniali”. La bottega si trovava vicino al recinto degli edredoni, o “anatre dal piumino”, appartenenti al più noto genere delle “Oche del Campidoglio” che, pur essendo glorie pagane, hanno ora come Santo patrono San Martino.

“Comandi !”, disse con voce da baritono femminile la proprietaria paludata con una toga matronale, provvista di rughe e codice a barre e completata dall’autunno delle mani.
“Non comando proprio nulla. Ci mancherebbe altro, specialmente in un contesto che richiama alla mente come perfino l’Onnipotente abbia creato la vittoria quale schiava di Roma.- Desidererei, piuttosto, un piccolo astuccio per riporre un minuscolo cacciavite necessario a stringere la montatura dei miei occhiali”.
“Mi faccia penzare ‘nu poco. Onde stà? Ecco, signò, questo è un agariolo”, rispose la negoziante con una improbabile pronuncia romanesca che sarebbe certamente dispiaciuta al poeta Trilussa, ma che alludeva a una scarsa propensione per il lavoro.
Già, l’argariol, involucro ligneo per aghi: parola rimasta indietro nel tempo e che ci raggiunge.

L’atmosfera non era solo commerciale, ma di costume. Si sentiva un sottofondo musicale dal tempo allegro moderato, che non sarebbe stato male sostituire con l’overture della “Gazza Ladra. Il tutto offriva un’impressione simile a quella che si riporta osservando una torta durevolmente esposta nella vetrina di certe pasticcerie. Le guarnizioni sono chiaramente di gesso: canditi, panna montata, ciliegine , fragoline del bosco e mirtilli perfino, sembrano di grato sapore. In realtà sotto la torta c’è soltanto una vuota anima di cartone.
Fuori una nonnina apostrofava il nipotino per come indossava la maglietta:” ùn vedi questo! Ha messo su il davanti per il didietro!”-

La giornalista si chiedeva come mai si fosse giunti a tanto. In altre regioni una tale conformazione mentale con tanto di rinuncia allo spirito di appartenenza, di cui il linguaggio è testimone, non si registra affatto. E pensava:” Le scelte folcloristiche sono ovviamente libere. Bisognerebbe tuttavia evitare di considerarle come precostituite realtà storiche, magari con finalità didattiche. Ma questi non si accorgono che non saranno mai quello che anelano a diventare. Inoltre non sono più nemmeno quelli che erano. Non sono più nessuno. Sembrano momenti all’ibrido, una confusione, una deriva. Una svalutazione, una finzione permanente, infine. Bisogna proprio che si sentano a disagio nella propria identità naturale, per volersi trasferire in una pelle storica altrui, estranea e lontana, affidandosi a un improbabile segmento di reincarnazione. – Iniziare una nuova vita si potrebbe soltanto dopo la morte. Nel frattempo conviene intanto restaurare più volte la vecchia esistenza, perbacco! “

Man mano che la giornalista procedeva verso la stazione affioravano altre considerazioni. All’adeguamento psichico, per esempio, non sembrava corrispondere, nonostante gli sforzi, la conformazione fisica: le corde vocali e quindi la pronuncia restano quelle che sono, con delusione dei trasformisti. La risposta “comandi “, ancorchè meno usata, rimane annidata nella psiche quale traccia di un’inspiegabile subalternità. In altre parole la carne sarebbe magari forte, ma lo spirito debole. Poiché si contrasterebbe tuttavia con il messaggio evangelico, un popolo devoto non dovrebbe comportarsi a questo modo. A meno che per credere in certe cose non sia necessario ragionare: basta fingere, sforzarsi di credere. In ogni caso il linguaggio che ne risultava, segno di un’incompiuta metamorfosi trasversale, appariva grottesco. Esso non corrispondeva alla struttura e al perimetro del pensiero, ma piuttosto al pigolio della gramigna.
L’intacchinamento l’inguistico diffuso non sarebbe piaciuto nemmeno a Giacomo Leopardi che pure, nonostante tutto, si era lasciato sfuggire la sgrammaticatura “il zio” nello Zibaldone. In conclusione non si poteva provare per questo stato di cose una stima maggiore di quanto esso meritasse. Si trattava infatti di semplice analfabetismo emotivo: incapacità di riconoscere le emozioni degli altri. O peggio: il protocollo di una caduta nell’infantilismo culturale.
Le autorità vedevano di buon occhio la nuova proclività giustamente rappresentata soprattutto dai personaggi vestiti da schiavi, e non da poeti, romani. Sarebbe stato infatti arduo rinvenire un sembiante come quello di Petronio. I vermi solitari delle burocrazie nutrivano così le loro prede per poter fare un banchetto più ricco, come magistralmente si espresse Paulo Coelho nell’opera “Monte Cinque”, in cui si narra come il protagonista si fosse trasformato, con la fantasia, in un poco piacevole corvo. Oh, i corvi! Ce n’erano due, indifferenti e boriosi, solitamente stazionanti tra il Foro ( più appropriato sarebbe chiamarlo foruncolo) e il tempio delle Vestali appositamente ricostruito vicino all’allevamento degli ippocampi. Per il resto il mitico santuario era comunque deserto. Forse per mancanza di materia prima.

E’ pur vero che per uscire da certe situazioni è sufficiente il passaporto. Ciò non significa però che tutti i pettini non vengano al nodo, o qualcosa di simile, come ogni esperto di proverbi sa bene. Rimane legittimo (o meglio legittimo, per adeguarsi alla nuova tendenza traslocata peraltro con successo in un esame di gongorzo pubblico) chiedersi come andrà a finire. La storia e la sociologia insegnano che la consapevolezza di pagare per tutti in cambio di pedate nel sedere, colonizzazione culturale e sfruttamento economico, crea una solidarietà tra tartassati che assurge a elemento identitario. Perfino la gastronomia si adegua. Nei ristoranti locali sparisce infatti gradualmente la gratificante, breve e rosea congiunzione che da sempre qualifica un piacere del gusto insito tra le parole pasta e fagioli, pietanza con un curioso senso di solidità.

La giornalista guardava la gente e pensava a voce alta: “Finirà come l’Impero Romano diamine. Ci sono tanti occhi azzurri in giro “.
La notte di San Lorenzo era imminente e gli abitanti delle stelle cadenti aspettavano che la terra precipitasse, per esprimere a loro volta e finalmente il proprio desiderio: essere e non apparire.

Nerio de Carlo

Nessun commento:

Posta un commento