sabato 14 gennaio 2012

La leggenda del Santo Trovatore


Dal libro “ La leggenda del Santo Trovatore “ di Nerio De Carlo
A cura dell’Associazione Trevisani nel Mondo, Sezione di Oderzo,


L’Associazione Trevisani nel Mondo, Sezione di Oderzo, esprime il più vivo ringraziamento all’Autore Prof. Nerio De Carlo, alla Confcommercio, mandamento di Oderzo-Motta di Livenza, ed alla Banca di Credito Cooperativo del Piave e del Livenza di Mansuè per aver reso possibile la realizzazione della presente pubblicazione.

Il Presidente

Cav. Luigi Serafin




PRESENTAZIONE
Leone Tolstoj sostenne: “Se vuoi essere universale parla del tuo paese”.
Questo autorevole consiglio è continuamente nell’opera che qui presentiamo, tanto è vero che i luoghi, così familiari all’autore, potrebbero essere sottolineati in una carta topografica del nostro Comprensorio.
Questa raccolta di racconti, il cui titolo rievoca nelle assonanze un capolavoro della letteratura mitteleuropea, contiene naturali ingredienti delle radici umane. Solo la loro sequenza è dubbiosamente singolare e viene da chiederci se l’autore abbia vissuto nei suoi racconti, oppure li abbia inventati per viverci dentro. In ogni caso sembra che l’umorismo e il paradosso siano la sua versione della serietà.

In ogni pagina di queste scritture dell’identità c’è un messaggio, talvolta palese, spesso cifrato. Ogni racconto dovrebbe essere letto più volte per capire il linguaggio di chi sogna per conto terzi. Le frasi sono prive di museruola , caustiche, trasgressive. Per comprenderle del tutto ci vorrebbe l’accalappiasogni.

Questo libro è un investimento in cultura da parte di settori produttivi, quello bancario e quello commerciale, noti per avere da sempre perseguito il profitto. Non è più così. Una parte dei proventi viene ora investita nella valorizzazione di una visione del mondo che appartiene al nostro tessuto socio-culturale, affinchè non si dimentichi che anche il successo, il progresso e l’immagine di una comunità sono opera di gente che pensa, lavora, si stupisce, soffre e sorride come i personaggi che abitano nelle righe che seguono.

La comunità vegetale, gli insetti e i personaggi di queste pagine sono immaginari ed ogni riferimento alla realtà è puramente casuale.

CONFCOMMERCIO
Associazione Commercio Turismo e Servizi
Mandamento di Oderzo-Motta di Livenza

Il Presidente
Bruno Andreetta



PREFAZIONE
La cultura è una caratteristica specifica dell’umanità che crea e moltiplica valori materiali e spirituali. Valori come la letteratura che si incontra percorrendo i racconti di Nerio De Carlo. Valori come la cooperazione, del quale la nostra Banca di Credito Cooperativo del Piave e del Livenza ha fatto l’essenza stessa della propria anima. Letteratura e cooperazione legati insieme da un filo insolito ma non per questo meno tenace: la migrazione.
La nostra Banca, impresa sociale fatta di persone prima che di capitali, ha scelto di sostenere l’edizione di questi racconti, nel quadro delle iniziative culturali che da qualche anno la vedono attenta madrina. Andando indietro nel tempo troviamo le pubblicazioni “Basalghelle, appunti della nostra storia”, “Le stelle forse non esistono nemmeno”, “Francesco Dall’Ongaro, la voce della coscienza”, la guida al museo storico di Maserada sul Piave “1917-1918 il Piave , la memoria”. Opere letterarie diverse tra loro, aventi quale comune denominatore la promozione della cultura fra i due fiumi che troviamo nel nostro nome: la Piave e la Livenza.
Lo sviluppo della cultura costituisce un processo costante di trasmissione delle esperienze e delle conoscenze da una generazione all’altra. Se la continuità di questa evoluzione si interrompe, la cultura cessa di esistere e cade nell’oblìo. La cultura dei nostri padri è radicata nel cuore dei migranti, che con struggente nostalgia rimembrano tradizioni e consuetudini della loro terra, nostalgia che troviamo in alcune righe di questi racconti.
Scopo di un istitutori credito è perseguire il profitto. Per una Banca di Credito Cooperativo qual’ è la nostra, la sua missione si misura, prima che in termini monetari, nelle espressioni di crescita sociale e culturale della comunità. Poiché, a comporre quest’ultima ci sono pure i Soci della Banca di Credito Cooperativo, le persone per le quali essa opera ponendole sempre al centro della propria azione.
Ci auguriamo che questa raccolta possa costituire un momento di piacevole lettura e un invito a soffermarsi sulla ricchezza di presenze e di segni racchiusi nel nostro territorio fra Piave e Livenza.

Cav. Ireneo Miotto
Presidente il Consiglio di Amministrazione
Della Banca di Credito Cooperativo
Del Piave e del Livenza



In ricordo del fratello Bruno:
"La vita ha perso contro la morte,
ma la memoria vince nella lotta
contro il nulla"
(Tzvetan Todorov, Les abus de e memoir)

LA SCUOLA DEI PESCI

C’erano una volta due fiumi: il Piave e la Livenza. Essi avevano un figliolo di nome Rasego, al quale piaceva attraversare un paese che si chiamava Basalghelle. Gli piaceva anche giocare con una pianta acquatica dalle vaste foglie verdi e dal fiore giallo splendido che si apriva solo di giorno per la gioia delle libellule dai grandi occhi: la calta palustre.
Vicino al ponte che scavalcava il Rasego c’èra la scuola per i pesci. La frequentavano otto piccole tinche con la pinna e la coda corte, sette piccoli lucci col dorso grigio e col ventre bianco, quattro piccole anguille dal colore verde sudicio di sopra e gialliccio di sotto, tre carpe ripetenti con tante squame, un piccolo pesce gatto con la testa grossa e due strani filamenti che sembravano lunghi baffi neri. Il nome di questo alunno era Marson.
Il pesce gatto non era ne’ più intelligente, ne’ più stupido degli altri scolari. Aveva imparato a scola che i pesci grossi mangiano i pesci piccoli e perciò evitava i pesci più grandi di lui. Non era una precauzione da poco. Aveva anche imparato che sull’acqua non si può scrivere e che certi vermi, i lombrichi, avevano un buon sapore, ma gli sembrava una diceria che la gente infilasse vermi in un amo per attirarae i pesci, in quanto nessuno de malcapitati glielo aveva potuto raccontare realmente.
Accadde così, in un brutto giorno, che il pesce gatto addentò un vermiciattolo penzolante nell’acqua. Un amo gli perforò subito il labbro superiore e il dolore fu grande. Si accorse poi che era stato tirato fuori dall’acqua poiché l’amo era legato a un filo. Per la prima volta vide anche un uomo sulla riva con una lunga canna in mano.
Mentre il pesce gatto era ancora appeso al filo, imparò quanto la scuola gli aveva insegnato e cioè che qualcuno usava veramente vermi come esca per catturare i pesci! Ma era troppo tardi.
Il pesce gatto non si arrese. Si dimenò con furia sperando di staccarsi dall’amo ma questo penetrava sempre più nel suo muso e faceva ancora più male. Provò perfino a supplicare il pescatore: “ Ti prego, lasciami tornare nell’acqua”. Ma l’uomo non capiva la lingua dei pesci, oppure non voleva comprenderla, e staccò il pesce dall’amo,ma solo per gettarlo in un secchio nascosto tra i cespugli, dove c’erano già altri pesci, tutti con un foro sul muso dal quale usciva sangue. – “Eccone un altro che non ha voluto credere quanto sia crudele l’uomo”, ripetevano piangendo i pesci nel secchio.
Il pesce gatto non voleva ammettere la realtà e disse: “Forse non tutti gli uomini sono così”.
- Gli altri lo compatirono e risposero: “Nemmeno ora sei in grado di capire e di imparare”.
Una ragazzina del paese, Ana Katharina, era intanto arrivata furtivamente sul posto e aveva visto il secchio con i pesciolini disperati. Immaginate che cosa fece.
Nerio De Carlo

IL PUPAZZO DI NEVE

“Dove sono finiti i miei occhiali? Vedo qualcosa in giardino vicino al cancello, ma non distinguo bene”. – “Gli occhiali saranno al solito posto e chi vuoi che sia in giardino? Ora guardo anch’io. Oh, perbacco! C’è un pupazzo di neve!”
“Un pupazzo di neve sul nostro prato all’inglese? Come vi sarà arrivato?” – “Certamente non a piedi. Lo avrà fatto qualche ragazzo. È carino con quella carota al posto del naso e con un recipiente igienico d’altri tempi per cappello. Mi ricorda la mia infanzia. Ma lo sai che in tutti questi anni non ho mai fatto un pupazzo di neve per me?”
“Ho una certa età e tu mi segui a ruota, anche se ti secca ammetterlo. Non è più tempo per costruire pupazzi di neve, mi pare. Se insisti potrei farne uno per il nostro anniversario, a fine giugno”. “L’idea sarebbe buona a prescindere dal fatto che il nostro anniversario è a fine settembre, quando la neve non c’è”.
La coppia uscì dalla villetta a schiera dove abitava per ammirare la bella figura e già progettava di cercare un nome adatto a un pupazzo di neve, magari frugando negli archivi della memoria.
“Perché tanta fretta col nome, gentile vicina? Forse abbiamo anche noi qualcosa da dire”, intervenne il proprietario della villetta confinante sulla destra.
“Che avete da obiettare? Questo è il nostro pupazzo: Sta sulla nostra proprietà”.
“Può darsi che l’attuale collocazione risulti nel suo giardinetto, ma, se osserva le tracce, può facilmente constatare che questo pupazzo è stato fatto con la neve che era nel mio giardino e pertanto esso mi appartiene”.
“In tal caso – soggiunse la signora seccamente – dica pure al suo pupazzo di andarsene dal mio giardinetto e di trasferirsi nel suo”.
“Oh, bella questa! Il mio pupazzo sente anche peggio di quanto suo marito ceda senza occhiali. Certe idee dovrebbero essere nell’elenco delle sostanze dannose. Vediamo un po’ che si può fare…”.
Il vicino di destra tentò di sollevare il pupazzo per collocarlo nel suo giardino come suggeritogli. Niente da fare. La discussione aumentò con allusioni alla concordia che un tempo regnava nel paese, alla litigiosità tra vicini oggi costantemente in agguato, all’incertezza degli attuali diritti di proprietà.
Intervenne anche il vicino di sinistra, un uomo con la faccia simile a sostanza metabolizzata: “Nessuno di voi può accampare diritti perché il pupazzo è stato fatto dai miei figli e soltanto questi, in base alla legislazione sui diritti d’autore, possono deciderne la destinazione. Da parte mia, come loro legittimo tutore, penso che…”.
La controversia coinvolgeva già altri vicini, quando arrivò il furgone del fornaio (allora il pane da noi veniva ancora recapitato casa per casa), che urtò il pupazzo di neve facendolo crollare.
Tutto avrebbe dovuto finire, ma non fu così. A chi sarebbe spettato di rimuovere i resti del pupazzo? Qualcuno era dell’opinione che tutto dovesse tornare nel luogo dove era stata prelevata la neve;altri insistevano che, sempre a causa dei diritti d’autore, i ragazzi avrebbero avuto il compito di stabilirne l’utilizzo. Il ragazzo del fornaio aveva nel frattempo constatato un’ammaccatura nel furgone a causa di una
“costruzione non autorizzata di impedimento al traffico”, come recita il Codice. Nel verbale dei Vigili, chiamati a riportare la calma, non c’è tuttavia traccia di questo incidente.


Nerio De Carlo

RIFIUTI

Eugenio abitava da solo. Vicino alla sua casa c’era ovviamente la piazzola con i contenitori dei rifiuti. Per la raccolta differenziata in un primo tempo ne bastavano tre: per il vetro, per la carta, per tutto il resto.
Durante l’inverno furono aggiunti altri bidoni per la plastica e per le batterie scariche. In primavera arrivarono quelli per gli altri materiali. Ognuno aveva il proprio colore finchè il numero rimase limitato ma, con l’aumento della loro quantità e il conseguente esaurimento di tutte le possibili colorazioni, fu necessario provvedere a una ordinata numerazione di tutti i bidoni. Il 10 agosto, il giorno dalla voce di velluto, si contavano già venticinque contenitori per la spazzatura sulla piazzola : ognuno con proprio numero e coperchio, s’intende. Per le carte assorbenti, le carte carbone r i fischietti fuori uso scartati da arbitri, vigili addetti al traffico, manifestanti in corteo era previsto l’imminente arrivo di scatolame monouso biodegradabile. Idem per gli aghi da tatuaggio.
Eugenio si sforzava di distribuire in maniera corretta, come raccomandato dal foglio delle istruzioni, il contenuto della sua pattumiera, quando alle sue spalle comparve uno strano personaggio. “Buona sera”, disse una voce autoritaria. “Buona sera”, rispose Eugenio.
“Ispettore Mondizia, Vigilanza Rifiuti. Abbiamo già discusso altre volte sulla raccolta differenziata e non colleghi, per favore, assonanze e rime al mio nome, come certa gente usa fare, altrimenti sarebbe offesa a pubblico ufficiale”.- “non mi permetterei mai, nemmeno mentalmente”, rispose Eugenio, “al massimo poteri pensare a una afaresi, cioè a quel fenomeno di soppressione di un suono all’inizio di una parola per cui, per esempio, qualcuno dice “no-cente” al posto di “innocente”, oppure, “spettabile “ al posto di “rispettabile”, ma nulla più”.
L’ispettore continuò: “ È difficile la raccolta differenziata, non è vero?”
“Si può proprio affermarlo”, annuì Eugenio.
“Ma è nell’interesse dell’ambiente”.
“Si. Lo so”.
“Ma anche nell’interesse della comunità. Ci pensai un poco: Se c’è un cinque per cento di errori, ciò corrisponde al contenuto di quei bidoni e non si può riciclare”. Indicò il bidone n.8, materie plastiche con presenza di cloro.
“Lo credo bene”, concordò Eugenio.
“E si rende conto delle conseguenze di un simile comportamento asociale? L’economia entra in crisi, ditte chiudono, si perdono posti di lavoro… tutte cose che Lei non vuole certamente”.
Eugenio annuì: “E chi vorrebbe una cosa del genere?”
“Allora Lei comprenderà che i rifiuti non sono più una questione privata come prima”, concluse l’Ispettore e scoperchiò i bidoni dal n.9 al n.12. “Vediamo un po’”.- Indossò un paio di guanti gialli e rovistò: “Che è mai questa roba?”.
“Metallo”, ammise Eugenio.
“Metallo senza alluminio. Andava al n.19”.
“Si, ma come posso sapere che…”-
“Ammetta di essere stato troppo pigro per leggere le spiegazioni sull’involucro”. – “Sono scritte in caratteri tanto piccoli da risultare sempre illeggibili”. – “E questa che roba è?”- “Plastica”.- “Plastica con coloro. Non può stare al n.11, bensì al n.8, come si è già detto”.

Eugenio cominciò a pensare che ogni difesa fosse inutile. L’Ispettore, che per le circostanze esibiva una faccia da composto organico come quella del Direttore Generale dell’Azienda presso la quale Eugenio lavorava, ha sempre ragione, anche in Tribunale purtroppo… - Gli rimaneva solo la possibilità di assecondarlo, come la volta precedente: “Farò maggiore attenzione in futuro, ma venticinque bidoni per una persona sola sono pure un bel numero!” Non aveva ancora terminato il buon proposito, che l’Ispettore aveva pescato un mezzo panino imbottito. “E questo cos’è?” – “Composto organico: deve andare nel bidone n.17, dove stava infatti”, cercò di replicare Eugenio. –“Si, ma il panino era imbottito di salame. Il pane va al n.17, ma il residuo di salame(e non si permetta associazione di idee a tale proposito) è sostanza animale, bisognava portarlo al n.24. e chissà dove è andata a finire l’eventuale carta stagnola che l’avvolgeva!”

Eugenio cercò di argomentare, ma gli fu chiesta la licenza per il diretto disbrigo delle proprie faccende domestiche. L’Ispettore proseguì: “Non c’è nulla da fare con Lei. Nelle ultime settimane ho esaminato i Suoi bidoni e sempre sono state rilevate irregolarità. Lei non è in grado di separare i propri rifiuti e sa bene che questo è il presupposto per essere titolari di una licenza per sbrigare le proprie faccende domestiche. Lei non è autosufficiente”.
“Senta”, cercò Eugenio di insistere, “Non voglio finire nella Casa di Riposo: Sono ancora abbastanza giovane e lavoro in un’Azienda importante”.
“Avrebbe dovuto pensarci prima. Ma osservi la questione da un altro lato: Lei perde si la Sua autonomia, ma non dovrebbe più preoccuparsi di separare continuamente i rifiuti secondo normative che cambiano ogni settimana”.
“Ma ho solo quarant’anni”.
“L’età non conta. L’indebolimento delle capacità mentali varia da un individuo all’altro”, spiegò l’Ispettore, “ma la legge è legge: quando uno non è più spiritualmente in grado di separare i rifiuti della propria esistenza, c’è il ricovero obbligatorio. Questo è il Suo caso!”.

Eugenio si trova ora nella Casa di Ricovero. Ci sono vantaggi e svantaggi. Tra quest’ultimi c’è il sollievo di non perdere tempo di fronte ai bidoni dei rifiuti col pericolo di sentire la voce sabbiosa dell’Ispettore Mondizia che contesta un’infrazione. Tra gli svantaggi c’è la constatazione che il concetto di Casa di Riposo non è che un fossile superato della propria gioventù, tanto è vero che ieri vi sono state ricoverate ricoverate due ragazze di nemmeno trent’anni.



Nerio De Carlo

LA TARTARUGA

Da tempo Caterina desiderava avere una tartaruga. Non un gatto, un cucciolo oppure un altro animale, ma una tartaruga. Un giorno ne vide una esposta nella vetrina del negozio di animali vicino alla scuola e il suo desiderio aumentò.
“Mamma , mi comperi una tartarughina per il mio compleanno?”, chiese fiduciosa la bimba.
“Non è possibile. Non abbiamo giardino per la bestiola, che tra l’altro è anche stupida. Sporcherebbe la casa. Ti regalerò qualcos’altro”, rispose la madre aggiungendo altre difficoltà come il letargo invernale, le visite veterinarie, la denuncia obbligatoria presso le autorità trattandosi di animale esotico e, non ultima, l’impossibilità di affidare la bestiola ad altri in caso di assenza.
Qualche giorno dopo (era il 22maggio) Caterina raccontò ai compagni di avere avuto una testuggine che si chiamava Isotta. Subito si accese la curiosità dei piccoli amici.
“Veniamo anche noi a giocare con Isotta”, esclamò entusiasta la bimba dai capelli rossi che sedeva al primo banco.
“No. In questi giorni abbiamo ospiti, non è possibile”, rispose Caterina arrossendo. “Oggi veniamo da te a fare i compiti e così ci mostri il tuo regalo”, insistette un altro giorno il ragazzo con le lentiggini che l’aspettava ogni mattina per andare a scuola. “No, oggi non è possibile perché Isotta sta male”, ribattè Caterina confusa.
Passarono altri giorni tra richieste e rifiuti, finchè l’amica dai capelli rossi seppe dal fratello di Caterina che in casa non c’erano tartarughe. La notizia fece il giro della classe. “Bugiarda, sei una bugiarda”, ripetevano tutti a Caterina. E lei reagiva stizzosa: “E io invece ce l’ho la tartaruga!”
La bimba torno a casa pensando ad alta voce: “Isotta , con quegli amici che mi hanno chiamata bugiarda non parlerò più”. Dopo qualche giorno la ragazzina dai capelli rossi le chiese: “Come sta la tartaruga?” – “Bene, ma è un po’ stupida e maleducata: sporca in casa. Poi quando ci dobbiamo assentare non sappiamo a chi lasciarla”, rispose seriamente Caterina.
Le domande sulla salute della bestiola continuarono e gli amici le mandavano qualche foglia di insalata colta nei loro orti. La bimba dai capelli rossi sosteneva che la tartaruga avrebbe gradito anche un po’ di cioccolata, con moderazione si intende.
Un giorno Caterina giunse a scuola in lacrime. “La mia tartaruga è morta”, confidò agli amici. Questi dissero: “Bisogna seppellirla”, “Si, ma dove?”, Nel giardino comunale sotto la pianta di sambuco”. – “Sta bene”, concluse Caterina.
All’ora convenuta per l’appuntamento la bimba dai capelli rossi potò una scatola di biscotti legata con un nastrino; il ragazzo con le lentiggini portò dei fiori(fiordalisi, credo), un altro amico scavò una buca nel terreno.
“Addio Isotta “, disse Caterina .
“Addio Isotta” risposero gli amici.
Sebbene sia passato molto tempo da quando i ragazzi hanno celebrato quella cerimonia , una tartaruga un po’ stupida e maleducata è rimasta impressa nelle loro menti.

Nerio De Carlo

LO SPAZZOLINO

Il professore di storia era entrato in classe con un’altra persona, un signore anziano rispetto all’età media degli insegnanti che, comunque, vengono in genere visti come vecchi studenti.
“Nella prima metà di quest’anno scolastico abbiamo studiato la storia del ventesimo secolo scritta dai vincitori delle due guerre mondiali che, sapendo tutto, hanno dovuto spesso ripetersi. Il programma è finito, ma le lezioni continuano. Sul passato sappiamo quanto ci è permesso di sapere ed è ora di occuparci del futuro senza tuttavia dimenticare che l’anticipazione del futuro corrisponde ad una maggiore vicinanza della morte”.
“Se la nostra mente potesse veramente anticipare il futuro, saremmo più preparati ad affrontare gli eventi che ci attendono”, osservò uno studente del secondo banco.
“Per questo vi ho portato un personaggio in grado di descrivervi il futuro. Egli passa il tempo a interpretare i segnali del destino per costruire una visione del futuro che viene poi raccontata come una favola. Si distrae soltanto per bere qualche bicchiere di vino, omaggio della Cantina Sociale, ma non vi cerca l’alcol, bensì la poesia”.
“Un santo trovatore piuttosto. Ascoltatelo con attenzione”.

Un pomeriggio di maggio dell’anno 2008 un cliente entrò nella farmacia sotto i portici, che esisteva già nello scorso millennio, per comperare uno spazzolino da denti.
“A base fissa o a rotazione?” – chiese la commessa.
“Cos’è meglio?
“Dipende dalla struttura dei denti. Possiamo vedere in fretta”.
Il cliente non sapeva che dire, era impacciato e anche un po’ sorpreso. La ragazza prelevò due strani apparecchi da un armadietto: “Ecco, questo è il nostro modello 3000”, disse orgogliosa e cominciò a indicare i tasti per le diverse funzioni che venivano rigorosamente nominate con sigle. “Cosa si deve intendere per TAT, DES e tutto il resto?” – chiese il cliente confuso. “Le setole”, spiegò la commessa, “devono assumere una diversa angolatura a seconda che a essere spazzolati siano gli incisivi, i canini o i molari, per non parlare poi del dente del giudizio”. – “Perbacco!” – esclamò il cliente. “Qui sopra c’è il dispositivo personalizzante. Si digita la Password”, continuò la commessa. “Password?” – “Si, il codice segreto. Non vorrà mica che degli estranei, dei ladri magari, usino il suo spazzolino da denti?” – “Non sia mai”. – “Per l’ablazione del tartaro bisogna invece spingere questo bottone attendendo che si accenda la spia verde. La grande novità è però rappresentata dalla prevenzione della paradentosi, che si ottiene azionando...”.
La commessa si accorse con disappunto che il cliente non la seguiva nella descrizione. “In poche parole”, riassunse, “questo modello 3000 consente di spazzolare i denti, distruggere i batteri, massaggiare le gengive, restituire splendore ai denti e immunizzarli contro la carie …”- “Ma otturazioni non se ne possono eseguire?”. – “Non ancora”.
A questo punto il cliente voleva rivolgere una domanda che da tempo teneva sulle labbra e alla fine riuscì anche a farlo:”Uno spazzolino da usare amano non ce l’ha forse più? È un modello superato, vero?” – La ragazza lo guardò come avrebbe fatto ogni suo collega nei negozi di Hi-Fi, cui fosse stata richiesta una di quelle puntine d’acciaio per grammofoni in uso per un po’ di tempo nel secondo millennio. “Dia un occhiata al mercatino dell’antiquariato, ma non si faccia illusioni”, fu la risposta accompagnata dal sospetto che, in varie circostanze, il regresso faccia continui progressi.
“Non c’è un apparecchio più semplice?” – chiese il cliente. “Non c’è, ma noi offriamo anche dei corsi di formazione sull’uso del modello 3000: A dire la verità un prodotto più semplice lo abbiamo ma è molto meno efficace”.
Il cliente si decise per uno degli apparecchi più semplici e meno costosi, e, appena giunto a casa, lesse il manuale per l’uso. Non riuscì a capire nulla di quella prosa contorta, che, comunque, era una consolazione in confronto alle spiegazioni con sigle sentite in farmacia.

Attualmente quel signore si pulisce i denti con un vecchio spazzolino per pulire le bottiglie che ha scoperto in un armadio giù in cantina. Non si tratta certo di una soluzione durevole o definitiva perché sono già sul mercato dispositivi elettronici anche per pulire le bottiglie, come gli ha confidato mercoledì scorso il commesso di una bancarella alla Pescheria.
Nerio De Carlo

MANICOMIO

Il corteggiamento delle libellule lungo il Monticano, sotto il cielo dagli occhi blu, è commovente.
Genio si soffermava a lungo per ammirare quel’altalenare e la gente con capiva. C’erano altre stranezze in quell’uomo: ripeteva spesso che bisognava togliere a Cesare quel che è di Cesare e che è meglio essere stupidi e onesti, piuttosto che intelligenti e parassiti.
Mentre guardava le libellule lungo il Monticano recitava inoltre il dialogo tra Margherita e Faust: “Credi, quel che è detto intelligenza spesso è piuttosto vanità, limitatezza”. Ce n’era abbastanza per meritare d’essere chiamato “Genio il pazzo”.

“In un mondo capovolto il manicomio non è un luogo fuori posto”, pensava Genio, e fece di tutto per essere ricoverato. Mandò perfino una cartolina ad un personaggio molto in vista con “Tanti saluti dal buco dell’ozono!” – Ebbe un turbamento quando lo vennero a prendere, ma si riprese pensando: “Il nostro tempo è prenotato ed ogni giorno viene puntualmente riscosso”.

Sulla facciata dell’ospedale si notava una vecchia scritta coperta da una mano di calce, che diceva: luogo destinato al ricovero degli schifosi irrecuperabili. Genio non vi fece caso ed entrò risoluto. Incontrò un altro paziente. “Tu, chi sei?”, gli domandò. L’altro rispose: “Sono un pazzo. Non si vede?”:
c’erano tredici letti nel reparto psichiatrico: tutti occupati. Le altre corsie dell’ospedale erano invece vuote: Faceva caldo ed i pazienti con le altre malattie, praticamente tutti gli altri ricoverati, avevano interrotto le cure per curarsi in ferie. Sarebbero tornati a settembre, magari per morire.
Peccato che la medicina sottovaluti il potere terapeutico delle vacanze e non includa i viaggi tra i sistemi curativi. In ogni caso bisogna ammettere che l’ospedale è un vero universo,o meglio un pluriverso.

Le giornate scorrevano lente, esasperanti. I pochi presenti nelle altre corsie erano per lo più vecchi lasciati in parcheggio dalle rispettive famiglie in vacanza. Nel reparto psichiatrico, nonostante l’affollamento, le possibilità di dialogo mancavano e Genio si annoiava. Solo la notte portava sollievo. La notte rende infatti possibile quell’equilibrio tra la veglia , sonno e sogno che dona l’oblio. In quella specie di patria per forza non rimaneva altro che rifugiarsi nei propri pensieri. Purtroppo anche i pensieri, all’insaputa dell’interessato, erano stati ormai completamente omologati. Rimanevano ancora liberi due soli argomenti: gli infermieri e la morte. I primi sembravano fedeli come l’oro al proprio lavoro, ma, si sa, anche l’oro risente delle variazioni del prezzo. Quanto alla seconda, chissà se ai malati di mente è riservata una morte più facile? In ogni caso per una risposta ci manca l’esperienza. A questo punto l’unica consolazione rimaneva la statistica: nel reparto psichiatrico si registra il più basso numero di decessi e scusate se è poco! A ciò bisogna coerentemente aggiungere che le morti improvvise si registrano solo tra quanti sono sempre stati bene.

D’estate i malati di mente si sentivano un po’ come i responsabili dell’intero ospedale. Costituivano indubbiamente il gruppo più stabile e, poiché in estate anche i veri responsabili sono in ferie, a qualcuno dei ricoverati saltava in mente, proprio come accade tra i dementi, di essere presidente, direttore, consulente dell’ospedale.
Nel reparto psichiatrico erano proibite molte cose,com’era logico che fosse, ma era permesso giocare a carte. A quest’ultimo passatempo si dedicavano quelli che erano convinti di impersonare le massime qualifiche del Servizio Sanitario. Il proverbio dice che in ospedale ogni scherzo vale, o qualcosa di simile.

Le partite avevano luogo tutti mercoledì sera. Era un vero e proprio gioco d’azzardo, in quanto venivano puntate grosse somme. Poiché i malati di mente non possono disporre di denaro, tutte le somme venivano rigorosamente annotate in un quaderno. Si trattava in effetti di una contabilità imponente, sebbene avulsa dalla realtà, ma gli interessati non lo sapevano. Una tale circostanza non è strana in un paese in cui riescono ad immaginare le convergenze parallele. E poi, anche la contabilità in certe strutture è imponente e avulsa dalla realtà.

A differenza di altri luoghi dove si gioca, non tutti i giocatori del reparto psichiatrico cercavano di vincere. Certo, anche in questo caso chi riteneva di essere Presidente, Consigliere o Direttore si seccava di perdere. Non succede soltanto tra i malati di mente che si voglia trarre seraficamente vantaggio dalla propria posizione.

Il quarto giocatore, un tipo dalla faccia grugni forme, perdeva sempre. Tra gli altri nove ricoverati circolava la voce che gli fosse stato promesso un avanzamento di carriera, purchè perdesse. Così gli altri giocatori, che si sentivano a lui superiori, non si sarebbero alterati. Per il momento il risarcimento riguardava il corrispettivo di duecento ore di fittizie prestazioni straordinarie al mese, sempre rigorosamente annotato nel solito quaderno.
Le partite così truccate non piacevano ad un ricoverato-spettatore, che pretendeva di essere uno specialista del malocchio. All’incredulità che lo circondava si opponevano però i fatti, poiché alle invettive di quel curioso personaggio seguivano puntualmente altrettante piccole o grandi disgrazie. Genio condivideva le partite truccate invece e sosteneva che esse erano un atteggiamento consueto tra i malati di mente. Gli sembrava anche che la considerazione riservata dagli altri al personaggio perdente fosse una specie di IVA della popolarità che si può avere in un reparto psichiatrico, appunto.

Nerio De Carlo

BABBO NATALE

Abitavamo in una strada con belle casette unifamiliari. Quelle abitazioni a un piano erano costate anni di sacrifici e tanto lavoro specialmente di sera e di sabato. Le autorità avevano lasciato fare pregustando il momento in cui avrebbero preteso imposte sempre maggiori sulla casa.
Il nostro vicino aveva moglie e due figli piccoli. Anche quest’anno la famigliola aveva preparato in salotto l’albero di Natale con qualche regalo per i piccini. Dopo le feste vi erano rimaste appena una ciambellina e le solite palline di vetro.
A capodanno, dopo aver diligentemente contato il denaro rimasto e dopo aver messo a letto i bambini, la coppia volle cenare al ristorante, cioè l’unico locale del paese vicino alla chiesa dedicata a San Giorgio, un posto famoso nei dintorni perché serve pollame di produzione propria e vino da meditazione.
Poco dopo il bambino più grande si svegliò e andò in salotto. Già durante il giorno aveva notato la ciambella di zucchero superstite. Prese una sedia in cucina, vi salì e addentò il dolce golosamente. Poi ne portò un pezzetto al fratellino che era rimasto a letto. Sapeva che non avrebbe dovuto farlo. Il papà gli aveva detto:”Se non sei ubbidiente e mangi solo quello che ti dà la mamma, Babbo Natale ritorna e ti porta via tutti i regali che hai ricevuto”.
Faceva freddo in salotto. Il bimbo vide la porta del balcone: La tenda ondeggiava per il vento: Poteva essere entrato qualcuno? Tornò nella camera, dove il fratellino succhiava ancora il pezzetto di ciambella. Anche da qui sentì un rumore. Poteva essere Babbo Natale che lo aveva visto mentre disobbediva? La curiosità superò la paura. Aveva sentito spesso parlare di Babbo Natale, ma non lo aveva mai visto!
Il bambino ritornò in salotto. Babbo Natale era proprio là. Aveva appena chiuso la porta di un armadio e spenta la pila tascabile che teneva in mano; poi raccolse un sacco, se lo mise in spalla e si diresse verso la porta che dava sul balcone.
“Sei Babbo Natale?” – chiese il piccolo – “Si Babbo Natale, non è vero? Fammi vedere come sei fatto?” – L’uomo si fermò sorpreso e rispose: “Come vuoi che sia fatto?” – Il bambino continuò: Sei venuto perché non sono stato ubbidiente? Ho preso soltanto un pezzetto della ciambellina e ne ho dato un po’ anche al fratellino”. “Quale ciambellina ?”, chiese lo sconosciuto: “Quella sull’albero. Era l’ultima e per niente buona ormai. Ora vuoi riprenderti i regali che mi hai portato, non è vero?”, disse il piccolo.
L’intruso non sapeva che rispondere, poi spiegò: “No, i regali proprio no. Nel sacco ci sono cose che appartengono ai tuoi genitori. Non ho preso nulla di tuo: Ma ora debbo andare.”
In quel momento il fratellino minore cominciò a piangere e a tossire. “Che succede?”, chiese l’uomo. “E’ il mio fratellino, è ancora molto piccolo”:
“Sembra una cosa seria la tosse. Andiamo a vedere”, disse l’uomo sconosciuto.
L’adulto accese la luce. Non sembrava proprio Babbo Natale: Oltre tutto non aveva nemmeno la barba bianca! Prese il bambino in braccio battè a lungo sulla schiena con la mano e gli fece sputare un pezzetto di zucchero colorato.
“Abbiamo avuto fortuna. È solo un po’ di ciambellina. E ora a letto. Se il piccino dovesse tossire ancora, dagli qualcosa da bere, acqua o latte, ma non troppo freddo”, concluse Babbo Natale mentre saltava giù dal balcone.
I nostri vicini stavano rincasando. – “La porta del balcone è aperta e la luce accesa”, notò subito il marito. “E questo sacco cos’è?”, chiese la moglie. “L’argenteria e i gioielli. Oh Dio, i ladri”, conclusero entrambi.
Si precipitarono nella stanza dei figli. Meno male, qui non era successo nulla.
I genitori andarono a letto ma continuarono a parlare di quanto accaduto. “Bisognerà chiedere a un vicino di stare da noi quando siamo assenti”, diceva il papà. “Si può chiedere a mia sorella di venire qualche volta”, sosteneva la mamma. Intanto i bambini non riuscivano a prendere sonno. Allora il maggiore dei due figli disse: “Papà, mamma, se continuerete a litigare, tornerà Babbo Natale e porterà via tutte le vostre belle cose”.

Nerio De Carlo

PER DISGRAZIA RICEVUTA

Il convento era una grande casa, una bolla di silenzio nella quale i monaci pregavano e lavoravano. Qui l’onesto operare si era mutato in natura. Più in là una strada diritta e costeggiata da platani conduceva al paese diviso in due da un esiguo corso d’acqua e circondato da un’invisibile muraglia di bellezze. Ancora più in là il bosco della Vizza cullava piccoli gufi tutt’ora implumi.

Il Padre Priore cercò fra Felice nella cappellina che si trovava oltre il cortile del convento. Costui era un fraticello tanto solitario che talvolta, anche quando era solo, si considerava perfino di troppo.

“Devo parlare con te fra Felice”, disse il Padre Superiore, “ma non qui. Nel mio ufficio”.

I due religiosi si recarono nell’ufficio. “Scusami per l’interruzione delle preghiere, ma ho urgente bisogno del tuo consiglio. Tu hai spesso un’opinione diversa dalla mia e ciò impedisce che sbagliamo entrambi”. “Il mio consiglio?”, rispose il frate scrutando il Superiore e meravigliandosi di come la pelle umana possa tendersi senza rompersi. “Ma io non sono istruito. Si figuri che fino a ieri ero convinto che la bigiotteria consistesse in un paio di perline in più nella corono del Rosario!”.

“No. Questa è la bigotteria e non la bigiotteria, ma torniamo all’argomento. Si tratta di una decisione che riguarda il nostro convento, il nostro Ordine, forse il mondo intero …”, ribattè il Priore. Fra Felice non capiva e chiese: “Che succede?”

“Uno scienziato ha recentemente lasciato in eredità al nostro convento il contenuto di una cassetta di sicurezza presso la Banca di Credito Cooperativo. Non comprendo il motivo di tale gesto, anche perché il defunto sapeva bene come noi religiosi pensiamo di gente come lui, illusa di poter manipolare la natura senza conseguenze”.

“Che c’era nella cassetta di sicurezza?”, chiese curioso fra Felice. Il Priore tirò fuori dal cassetto una bustina e la consegnò al confratello.

“Sembrano delle sementi”, disse quest’ultimo. Il Padre Superiore confermò: “Giusto. Roba di nessun valore, sembra. Ho però piantato un paio di queste sementi. Tu sai bene che la botanica è sempre stata la mia passione”.

“E allora?”, si informò fra Felice. Il Priore prese dal davanzale un vaso nel quale c’erano due robuste pianticelle. Le foglie erano di un colore cipriato e rigogliose, i rami scuri e flessibili. Ma la vera meraviglia erano le bacche. Queste erano grandi come una ciliegia e sembravano d’oro. Fra Felice ne toccò una , sentì che era dura, metallica, e concluse: “Nocciole con buccia d’oro”.

“È così fratello. Ho già consultato un gioielliere. Di fronte a noi c’è un capitale”.

“Mio Dio …”, sospirò il frate, “questo è un miracolo! Comunque, a prescindere da tutte le riserve da tutte le riserve che si hanno nei confronti dell’ingegneria genetica, un orticello con qualcuno di questi cespuglio risolverebbe molti dei nostri problemi. Potremmo iniziare quel progetto di irrigazione in Africa che abbiamo dovuto sospendere pere mancanza di denaro e l’ospedale in Brasile, che sta a cuore al nostro Superiore Generale(che Dio l’assista sempre), potrebbe essere finalmente ultimato. Senza parlare dei vantaggi anche per i poveri che assistiamo. Come si sa, l’egoismo si integra facilmente, mentre l’altruismo rimane parola straniera. Inoltre anche i posteri ci ricorderanno”.

“Sei entusiasta fra Felice?”, chiese il Priore con una punta di scetticismo pensando che, in fin dei conti, i posteri non hanno mai fatto nulla per nessuno.

“Così non dipenderemmo più dalle incerte elemosine dei benefattori e potremmo fare veramente un po’ di bene. Che c’è di male, dunque? Solo i miopi credono che la fortuna sia cieca”.

Il Priore sorrise e soggiunse: “Questo è stato anche il mio primo pensiero, ma poi sono sorti dei dubbi”.

“Dubbi?”. Fra Felice non riusciva a capire.

“Si. Ed è di questo che vorrei parlare. Sai bene che il tuo parere è prezioso …”.

“Non capisco cosa ci sia ancora da argomentare. Un’occasione simile è un segno della provvidenza: Bisognerebbe scrivere sulla bustina: -Per grazia ricevuta –“.

“Quante di queste sementi useresti, fra Felice? Una? Cinquanta o forse più?”

“Perché non un orto intero? La miseria del mondo è grande, così potremmo superarla. Ogni bacca d’oro basterebbe a sfamare e istruire un bimbo del Terzo Mondo per un anno intero!”

Il Padre Superiore sembrava non condividere l’ottimismo del confratello: “Forse è così: Ma che accadrebbe poi? Tutto andrebbe bene se ci limitassimo a un paio di cespugli, ma se volessimo rimediare alla miseria mondiale, avremmo bisogno di una piantagione. Bisognerebbe produrre tonnellate d’oro. Altri ruberebbero le nostre sementi prima o poi e sorgerebbero altre piantagioni. Poco dopo il prezzo dell’oro incomincerebbe a scendere. Il fatto danneggerebbe in un primo tempo i gioiellieri e quanti posseggono oggetti preziosi. Più tardi le riserve auree delle banche centrali si svaluterebbero e il denaro non varrebbe più nulla. Seguirebbe una crisi economica che getterebbe nella miseria milioni di persone! Anche chi ora vive nel benessere conoscerebbe le difficoltà …”

“Anche le nostre piantagioni d’oro non varrebbero più nulla – aggiunse fra Felice -, poiché l’oro sarebbe una merce importante. A ciò si aggiunga che anche i nostri benefattori diventerebbero poveri e non potrebbero più farci l’elemosina. Altro che eliminare la povertà dal mondo! Così facendo l’avremmo soltanto aumentata e inoltre non avremmo più la possibilità di fare quel poco di bene che facciamo ora”.

“Il tuo parere mi conforta, fra Felice: Pensiamo alla stessa maniera. Ciò mi alleggerisce la coscienza. Scriviamo dunque sull’involucro dell’eredità: -Per disgrazia ricevuta- “, concluse il Priore.

La bustina con le sementi fu deposta nel portacenere che era sul tavolo, il quale per altro conteneva un mozzicone di grosso sigaro. Il Superiore prese lentamente un fiammifero, lo strofinò con la cattiveria dell’intelligenza e lasciò che l’eredità fosse divorata dal fuoco, mentre fra Felice emetteva un rassegnato sospiro simile a un clistere mentale.

Nerio De Carlo

IL GATTO

La zia non era in realtà una parente. Aveva insegnato il Catechismo ai ragazzi del paese anno per anno, da sempre, e tutti la chiamavano zia. Sapeva il Catechismo a memoria. L’unica difficoltà era rappresentata forse, da un paio di “vizi capitali” come la lussuria e l’accidia, che non riusciva a spiegare bene a noi indifferenti.
La zia aveva la sua bicicletta, la sua casa, la sua pensione e, da poco tempo, il suo televisore portatile. Non aveva ancora il suo tumore. Amava molto il gatto, al quale noi ragazzi facevamo qualche dispetto con particolare riguardo alla lunghezza dei baffi.
Un giorno la bestiola era morta di vecchiaia e si presentò il problema della sepoltura. Non c’era un giardino intorno alla casa. Chiedere aiuto a qualcuno di noi non era consigliabile: la piccola salma sarebbe probabilmente finita nel fiume. Questo sì sarebbe stato un esempio di accidia, appunto, cioè di quel peccato difficile da spiegare durante la lezione di Catechismo! Inoltre una simile bravata sarebbe trapelata prima o poi perché il nostro paese era così piccolo che, dal punto di vista statistico, una cattiveria sarebbe stata possibile soltanto ogni 768 anni.

Si poteva seppellire un gatto in un cimitero per cani? Certamente no! D’altronde in paese non esisteva un simile camposanto. La zia telefonò al veterinario e ricevette l’indirizzo di un Istituto che nella vicina città provvedeva a questa necessità dietro pagamento di un congruo compenso, esagerato per una pensionata. L’appuntamento fu fissato per il mattino seguente. Il gatto fu amorevolmente deposto nella scatola di cartone del televisore portatile recentemente acquistato. Il nome e la pubblicità della ditta costruttrice non avrebbero disturbato il sonno eterno del micio.

L’indomani il viaggio ebbe inizio. Il nostro paese non aveva, e non ha, la ferrovia. Dunque fu necessario recarsi in bicicletta e un poco con l’autobus in una località distante una quindicina di chilometri per prendere il treno.
Poiché mancava una buona mezzora alla partenza, la zia cercò un posto nella sala d’aspetto di seconda classe e si sedette compostamente dopo aver collocato con cura sul tavolo la scatola praticamente nuova, sigillata col nastro adesivo. Accanto a lei un signore con la faccia da rabdomante del letame beveva un caffè da un bicchierino di plastica. Alla zia venne in mente che per la fretta non aveva fatto colazione: per questo pregò il vicino di conservale il posto e tener d’occhio soprattutto la sua scatola intanto che andava a prendersi un caffè dal distributore automatico in funzione presso la stazione. Per non attraversare l’atrio col bicchierino pieno rischiando di scottarsi, sedette sempre compostamente su una panchina vicino alla rivendita dei giornali, bevve lentamente e con gusto e infine cercò il cestino per gettarvi il bicchiere di plastica, come fanno le persone educate.

Tornata nella sala d’aspetto, la zia cercò subito il tavolo di fronte al quale era stata seduta. Su nessun tavolo nella sala d’aspetto c’era però la scatola di cartone.
Anche chi aveva promesso di tenere d’occhio l’involucro non c’era più: La zia capì d’essere stata derubata. Mormorò tra sé: “Dio diede 10 Comandamenti, ma pochi sanno contare fino a 7! Nessuno vuole imparare il Catechismo: Non ci si può fidare di nessuno”. Che fare? Il viaggio in città non serviva più e il costo del biglietto, non poco per una pensionata, poteva essere evitato.
Certamente era risparmiata la spesa per la cremazione del suo vecchio , amato gatto defunto.

Sul volto della zia la sorpresa e la delusione per l’altrui inaffidabilità si dissolsero in un sorriso malizioso che sembrava significare: “Qualcuno mi odierà per quello che hai fatto”. Andò verso il distributore automatico delle bibite e si permise un secondo, più gustoso caffè.

Nerio De Carlo

DAL PARRUCCHIERE

La signora Casimira detestava soprattutto due cose: una certa città e un suo ex capoufficio che si tingeva i peli delle orecchie. Le due immagini erano collegate tra loro, ma la seconda le attraversava il corpo come una purga.
Ogni mattina veniva ascoltata la radio per sapere se un cataclisma avesse distrutto quella certa città, come un’antica profezia avrebbe preannunziato.
All’ex capoufficio veniva dedicato uno sprezzante pensiero che comprendeva sia la sua abilità di restare sempre a galla (come le zucche e quant’altro), sia la sua faccia deturpata da funesti baffetti, che la facevano assomigliare alle scopettone un tempo usate nelle latrine.

Dopo queste canoniche incombenze la signora si recava spesso dal parrucchiere e ogni volta si chiedeva perché a questi amici delle donne fosse stata attribuita la non meritata fama di chiacchieroni. Perfino Socrate avrebbe contribuito a questa diceria: Quando gli fu chiesto come desiderasse farsi regolare la barba, il filosofo rispose: “In silenzio”.
Nel salone c’erano anche un piccolo cane e un merlo indiano. Quest’ultimo aveva imparato ad abbaiare, ma in quanto a chiacchiere , nulla!

“Mi piacerebbe se il parrucchiere cantasse almeno una canzoncina o recitasse una poesia”, pensava Casimira. Ma i parrucchieri non cantano e non verseggiano. Essi tacciono sia in prosa sia in versi. Forse si sono stancati delle tante critiche alla loro pretesa loquacità e in una riunione di lavoro (questa abitudine, esaltata dall’ex capoufficio di Casimira ma detestata da molti che preferiscono lavorare piuttosto che parlare di lavoro, non può avere risparmiato la categoria dei parrucchieri, diamine!) hanno deciso di non parlare più. Le clienti possono annoiarsi finchè vogliono!
“Peccato. Se continuerà così” – pensava Casimira – “non si dirà più muto come un pesce, bensì muto come un parrucchiere. Forse si pretenderà che anche le clienti osservino il silenzio e magari sarà posto sopra lo specchio un cartello con la proibizione di parlare al parrucchiere, un po’ come avviene sui mezzi pubblici affinchè i passeggeri non parlino al conducente”.

Casimira si immedesimò nella lettura. I parrucchieri hanno sempre delle riviste e una di queste accennava alla quantità di stoviglie che una casalinga deve lavare. – “Se i piatti non venissero lavati subito, cosa che può accadere per malattia o altre ragioni, ci sarebbe un mucchio alto cinquanta centimetri. In dieci anni diventerebbe una pila di 1800 metri”, spiegava l’articolo. La donna guardò verso l’alto. 1800 metri! L’articolo continuava: “La casalinga taglia in dieci anni circa tremila panini. Inoltre essa è come una maratoneta. Ogni giorno cammina per cinque chilometri. In dieci anni, senza contare le passeggiate con la famiglia, sono quindicimila chilometri, circa la metà della circonferenza terrestre. Questa posizione è superata solo dai postini. E il trasporto dei pesi come le borse della spesa? Almeno una decina di chili al giorno”.

Casimira era impressionata per la consistenza di quelle cifre e concluse che quello della casalinga è un lavoro molto pesante, quando giunse il suo turno di affidare la capigliatura alle mani del silenzioso parrucchiere. Aveva fretta di rivedere il marito, col quale era sposata da dieci anni, e di raccontargli quanto aveva letto circa il lavoro che un’abitazione richiede.
Incontrò il coniuge nel salotto, mentre spegneva l’aspirapolvere, gli buttò le braccia al collo e gli disse commossa: “Ho appena letto un articolo sul pesante lavoro domestico, mio caro: Scusa la mia decennale insensibilità. Soltanto ora so valutare e apprezzare il tuo lavoro quotidiano nella giusta maniera”.

Nerio De Carlo

I TOPI

Dopo decenni di lontananza era logico che Bepi avesse più cose da ricordare che da sperare. Tra le prime c’era una chiave di casa, nascosta prima di partire in un foro praticato dal picchio ne gelso del cortile. La mano frugò dubbiosa. La chiave c’era ancora.

La porta si aperse docilmente, quasi non fosse rimasta chiusa per anni. Un brulichio di topi si sciolse grigio in ogni direzione; una civetta sgusciò con volo basso da una finestra rotta; sul tavolo in cucina c’era ancora un pigliamosche all’aceto, come si usava decenni prima.
La situazione non era confortevole, ma Bepi avrebbe riportato la casa alla normalità. Durante la notte riposò poco: i topi erano ritornati in cucina e anche il granaio pareva una palestra per le loro corse. Forse era tornata anche la civetta.

La mattina seguente Bepi si recò in Comune per le formalità del suo ritorno. Un’impiegata con la faccia trapezoidale e dalle movenze autoinguinanti gli chiese: “Qual’era il suo nome?” – “Il mio nome non era, è ancora …”, rispose esibendo il passaporto con i molti visti consolari.

L’ossessione dei topi era diventata un reumatismo interiore. Quel giorno era per l’appunto mercoledì, giorno di mercato. Era dunque possibile acquistare le trappole per gli odiati roditori. Strada facendo Bepi guardava i campi ordinati e pensava tra sè: “Sarebbe bello se buoi e cavalli potessero guardare dalla strada uomini stanchi aggiogati all’aratro”.

Il mercato era identico a quello dei ricordi: il mercato è una legge e come tale esula dai cambiamenti disposti dalle altre leggi.
Nell’ultima bancarella c’erano articoli di ferramenta: serrature per porte blindate, martelli niente morsi per cavalli, niente alari per il focolare.
Bepi cercava trappole per topi. Ricordava che si chiamavano “coteghi” nella parlata di un tempo e si affrettò a farne richiesta . il venditore, vestito di un nero penitenziale, non comprese. Altri clienti si offersero in aiuto.
Un esteta della magrezza disse che quello era un articolo da cercare in farmacia.
“Ma no – intervenne un ometto con la faccia da untore -, queste cose si vendono in drogheria”.

Bepi non comprendeva più la gente? Lo assalì una crisi d’identità, cioè di quella caratteristica che fa la differenza tra una persona e il resto del mondo. Una situazione del genere poteva solo essere una conseguenza del verme solitario della burocrazia o di una ideologia, perché gli uomini che non hanno idee usano le ideologie.

Gli altri giorni della settimana passarono inesorabili come pulviscolo di clessidra.
I topi intanto non concedevano tregua. All’improvviso la delusione e la rabbia furono attenuate da un ricordo: Anna Caterina, l’amica degli anni verdi, chiamava “tamai” le trappole per topi!

Il mercoledì successivo Bepi ritornò al mercato a cercare i tamai. “Provi dal tabaccaio”, fu la risposta del mercante con la faccia che sembrava scolpita nel lutto. Altri discussero tra loro su come e dove potessero essere reperiti quegli strani articoli. I consigli vennero poi coscienziosamente sillabati, affinchè risultassero comprensibili allo sconosciuto cliente.
Era chiaro che quel pollaio di personaggi aveva scambiato Bepi per uno straniero con scarsa conoscenza della lingua. – “Già – pensava egli -, le parole sono il sangue della lingua. Quando le parole si logorano, la lingua ha cattivo sangue e si ammala. L’unico modo di preservare le parole dal logorio è scrivere poesia”.

I topi continuavano la distruzione di quanto fosse rosicchiabile. Forse Anna Caterina, che nella memoria di Bepi rappresentava sempre la risposta ecologica al silicone, conosceva le parole nuove necessarie per il rientro nella realtà. Loro due erano stati amici per anni. In chiesa, quando tutti chinavano il capo al momento del Sanctus, essi si scambiavano sempre un rapido sguardo di complicità: Un giorno si dissero che l’amicizia non era come un tubetto di dentifricio, che una volta premuto non può più ricevere alcun contenuto. Ma come rintracciare quella ragazza? Ragazza! Anche per lei il tempo era passato. Ma in realtà non esistono donne vecchie: al massimo ci sono donne che sono rimaste giovani più a lungo di altre. Un’idea balenò furtiva: in osteria, nel cenacolo del vino, si sanno molte cose, magari anche come ritrovare Anna Caterina.

L’edificio, dove un tempo si trovava l’osteria, c’era ancora. Era stato trasformato in un negozio di alimentari con attiguo bar, bello e ordinato come una stanza da bagno. Bepi entrò fiducioso, benché sui tavolini mancassero le unte carte da gioco trevisane. Chiese un rosolio. “Deve rivolgersi al fioraio. Il negozio qui vicino”, rispose la cassiera. Come chiedere altre notizie dopo un simile equivoco?
Eppure una soluzione doveva pur esserci. Un gatto, per esempio: da sempre i gatti cacciano i topi. Però, visto come andavano le cose e considerata la pubblicità divulgata dai cartoni animati di Tom E Jerri, i risultati potrebbero essere dubbi.

La domenica successiva Bepi pensò di andare in chiesa, sperando che almeno questa non fosse cambiata. Forse anche Anna Caterina vi si sarebbe recata.
Strada facendo pensava: “Con tutti questi cambiamenti perfino il racconto evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci potrebbe suonare come incitamento all’evasione fiscale. Non risulta infatti che il Redentore abbia pagato l’IVA”. La chiesa era sempre la stessa, solo che ora c’era il riscaldamento. La messa era invece cambiata, ma soltanto nelle parole che non erano più in latino. Anche il momento del Sanctus non era cambiato. Tutti chinarono devotamente il capo. Bepi non lo fece. Il suo sguardo incontrò quello di una donna, che aveva fatto lo stesso. Sembrava la felicità promessa.
Nerio De Carlo

P E S C I

Chissà che occhi aveva il salmone rosa,

di cui abbiamo appena mangiato un filetto!

Nerio de Carlo

LA DENTIERA

Quest’anno è il turno delle cure odontoiatriche. Il Ministero non riconosce più le spese per il dentista perché intende provvedere direttamente a fornire una dentatura artificiale ai pazienti bisognosi. L’alternativa dovrebbe comportare notevoli risparmi.
Per la verità non è la prima iniziativa nel settore. Il Ministero aveva già previsto un contributo in favore dei pensionati sdentati che fossero passati all’alimentazione liquida e che pertanto non necessitassero di una protesi, ma i risultati in termini di risparmio sono ancora allo studio dell’apposita, costosissima Commissione. Ora un altro gruppo di lavoro ha escogitato una soluzione sorprendente: una efficiente dentiera in lattice adattabile ad ogni tipo di palato e quindi, se necessario, cedibile.

La produzione di questa protesi prevede sei differenti versioni. Le prime tre dovrebbero riguardare la quasi totalità degli interessati, diciamo l’80%. Le altre sarebbero destinate a quanti hanno palati vistosamente fuori norma. In quest’ultimo caso sarebbero però indispensabili una particolare prescrizione dello specialista e il pagamento di un ticket che copra almeno la metà del costo.

La nuova scoperta avrebbe anche riflessi sociali, con la possibilità di ereditare una dentiera da utilizzare un giorno in caso di intervenuta necessità, come comodo. Così non si direbbe più che i poveri non lasciano nulla ai superstiti. Anche il furto sarebbe escluso, osserva il Ministero, in quanto si può togliere la dentiera prima di uscire di casa.
Un’altra possibilità di funzionale impiego e di ulteriore risparmio riguarderebbe le coppi anziane sdentate: mentre il marito mangia, la moglie guarda la televisione o viceversa. Poi la protesi passa all’altro partner.
Sembra poco, ma in realtà con questo sistema ci sarebbe maggiore informazione e quindi più ampia possibilità di colloquio in famiglia.
Il vero risparmio si realizzerebbe tuttavia estendendo tale metodo a ospedali e case di riposo per anziani, dove diventerebbe obbligatorio mangiare a turno o a piccoli gruppi in modo da impiegare al meglio la rotazione delle dentiere ministeriali.

Nerio De Carlo