venerdì 15 ottobre 2010

IL TEMPO D'ISACCO


Passato è il tempo d'Isacco.
Passato è il tempo dei carretti
cigolanti sulla strada ghiaiosa.
Quel tempo sembra essere un ricordo lontano
eppure è di ieri.

All'alba uno scricchiolio di ruote
un cadenzato calpestare di zoccoli
poi il suono s'allontanava piano piano.

Passato è Isacco.

Così leggero e sempre più distinto
sentivo il vociare delle donne
quando, all'ultimo suono di sirena,
si affrettavano alla filanda: poi
tutto taceva.

Era allora che il capinero
salutava il dì con il suo canto.
Voci laboriose, poi
silenzio.
Ed ancora voci.

Di tanto in tanto un carretto
due grida, un vociare di donne
un grido, un rumore leggero di zoccoli
una porta che sbatte il carretto che va
un corno che suona.

Quando gli occhi rivolti all'insù
s'abbagliavano di luce
una sirena risuonava nell'aria:

s'apriva un portone
ne uscivan le donne con aria giuliva.
E ancora silenzio.

Giochi di bimbi, richiami di madri
e nella strada deserta:
ancora silenzio.

Era l'ora in cui tutti
sedevan intorno alla mensa.

Al primo rintocco dell'Ave Maria
con il primo bagliore di stelle
quando l'aria si faceva più serena
e una campana c'invitava ad una preghiera
dalle case uscivan le donne
a godere del fresco serale.
Ridevano forte e parlavano piano.

Giochi di bimbi
grida di madri
saluti frettolosi poi
tutto
s'addormentava nella notte.

Mario Borsoi

PALCOSCENICO

(dedicata a mìo padre)


Non era per te che amavi la vita
ma per noi
e questo era quello che
più ti faceva vivere.
Ma amare gli altri
vivere
solo per gli altri no!
Non è giusto verso noi stessi.
E una nobile slealtà che
molte volte gli altri
non comprendono.
Spesse volte
ti ho visto sorridere
e troppe piangere
nei tuoi sentimenti avviliti.
Ti guardavo
senza farti capire che
capivo...
E soffrivo
anche se sorridevo
ballavo e scherzavo.
E così. Si.
Noi siamo degli attori
in questa vita
ed ognuno ha la sua parte
davanti a tutti
e l'altra
dietro le quinte.
Ed è forse questa la più difficile
da recitare
e per gli altri capire.
Ora la commedia sta per finire.

Mario Borsoi

PER VIVERE


Ho cancellato dagli occhi di bimbo
il verde del prato l'acqua del fiume
il gioco fraterno e l'amore sincero:
per vivere ancora.
Ho cancellato un giorno lontano
per continuare.
Un passato di fate per mari e per monti
per non ricordare
i sogni per non sognare.

Non avevo più niente.

Ho cancellato un giorno lontano
per vivere ancora.
Ho cancellato un passato per continuare.
Ho cancellato i ricordi per non ricordare
i sogni
per più non sognare.

L'amore, il dolore.

Non avevo più niente per vìvere,
solo un segno
profondo...
Ed ho riscritto tutto
per continuare
a vivere.

Mario Borsoi

Alla Natura

dedico questi mìei pensieri
ALLA NATURA
che tanto amai e amero'


Da te ogni uomo può attingere
saggi consigli che costano niente
e valgono più dell'oro.

...

Mi accorsi di te
passeggiando in quei giorni
spensierati e felici:
ti amavo
con il cuore di fanciullo.

Tu fosti l'unica mia amica
solo con te ero felice!
Perché, tu sola, eri sincera
e buona
ed una sola cosa m'insegnasti.

Ma poi
d'un tratto
non so perché
più non ti vidi.

Ancora oggi tu sai
che ti vengo a trovare
e ti parlo con parole sincere
che tu, sola, sai capire.

E quando si farà tardi
e dovrò andare
tu sai che
un giorno
tornerò fanciullo
e ti verrò a trovare.

IMPETUOSO FIUME


Inesperta bocca che arde parlar di poesia ed
impetuoso fiume di sentimenti sento
nell'animo travolgere i pensieri.

Poca cosa le labbra riescono a dir di
quel fluire che per le vene mi scorre
ad ogni fremito
d'amore.

E l'alitare mio cerca
quel soffio che dà movenze
e corpo alle parole
quasi volesse prosciugar
quel fiume
che dalla vita sgorga
dentro, bagnandomi
m'attraversa e va
a dissetare il cuore.

Mario Borsoi

NOTTE TRA TANTE CROCI

Notte tra tante croci ritornan mesti gli
ultimi ricordi una pagina s'apre di dolore
e sulle deluse speranze più triste, più
solo il mio cuore piange. Notte, lento
stillicidio di gocce che pare un quieto
pianto: piove sulla tua croce come Dio
volle, piove sui ceri che il cuore dolente
ha voluto stasera; piove sul povero capo
piegato, sulle mani che tergon tremanti
questo mio volto bagnato dal pianto
delle ore perdute. Piove, piove ancora
fin sotto le ossa da questo dolente mio
povero cuore
mio Dio.


Antonio Borsoi

IL MALOCCHIO

I cresimandi più fortunati ricevevano un tempo dai loro santoli un orologio. A un ragazzo del paese andò ancora meglio: egli ricevette dal padrino una macchina fotografica. Il dono era considerevole sia per il valore, sia per l’originalità. Nessuno possedeva un simile congegno in paese.
La pellicola consisteva in un breve film di celluloide arrotolato su un cilindretto di legno e consentiva nove pose.
La prima esperienza fotografica ebbe luogo presso la fontana rotonda davanti alla casa, specchio amato di notte dalla luna. La sorgente era incorniciata da un’aiuola circolare coltivata a stramonio. I grandi fiori bianchi di questa pianta ramosa e biforcata facevano bella mostra di sé. Venne poi la volta del grande tiglio nel cortile dell’ardito, superbo gallo del pollaio, entrambi meritevoli di una bella immagine.
La macchina fotografica era tuttavia un dono troppo importante per rimanere sconosciuto ad amici e parenti. Doveva subito essere esibita ai cugini che abitavano in un ambiente montano. La visita a questi ultimi fu effettuata nella domenica successiva a quella della cresima. Considerata la scarsità delle pose ancora disponibili, spettava a questi ultimi la proposta delle foto da scattare: una bella costruzione vicino al bivio, tre ragazze incostanti e sdegnose, il cui corpo pneumatico sbocciava con cautela, un direttore generale noto per lo stipendio d’oro in cambio di una faccia di bronzo, infine un individuo prepotente, poco rispettoso per la proprietà altrui e dedito più all’usura che all’uso dell’ambiente.
Per lo sviluppo della pellicola bisognava attendere un po’ di tempo, in altre parole la prossima mancia dello zio saggio e bonario. Il dono giunse invece inaspettatamente dal santolo e si poté procedere con sollecitudine .
Le pianticelle di stramonio risultarono afflosciate. Il tiglio appariva ancora florido nella foto, ma in realtà l’albero dal bel portamento era stato colpito dal fulmine il giorno prima. Il gallo era stato infine trovato morto nel recinto ad opera delle martore, così si supponeva.
Il fotografo dilettante si turbò. Poteva una macchina fotografica portare sfortuna? Oppure si trattava di una strana coincidenza? Quando fu accertato che anche un paio di galline, fotografate casualmente in un discosto secondo piano insieme al gallo, erano morte, il sospetto aumentò. A favore della coincidenza rimanevano tuttavia le altre sei immagini del tutto regolari. La maggioranza appariva determinante, ma il dubbio rimaneva. Era il caso di chiedere con prudenza informazioni ai cugini. Le brutte notizie giunsero presto. La bella casa vicina al bivio aveva preso fuoco. Un corto circuito, si diceva. Le tre ragazze erano state lasciate dai rispettivi fidanzati confermando il proverbio che la bile del vicino è sempre più verde, o qualcosa del genere. Come è noto l’abbandono è pur sempre un corteggiamento alla rovescia. Il Direttore Generale, mentre si allenava in bicicletta, andò fuori strada infilando il capo in una siepe di recinzione rigorosamente intrecciata a maglie di rete vegetale e dovette rimanere a lungo in quella scomoda nonché umiliante posizione. L’ultimo personaggio, infine, era finito in ospedale la sera prima per una grave intossicazione da funghi.
La successione dei fatti sembrava sufficiente per collegare la macchina fotografica a funesti poteri occulti. Come ognuno ben sa, chi pratica il malocchio è un uccello del malaugurio, anche se non ha mai volato.
Che fare? Esistevano due possibilità: darsi al professionismo con probabile successo, oppure conservare l’apparecchi sotto chiave per eventuali, future necessità personali. Un simile oggetto avrebbe potuto benissimo sostituire perfino il pur notevole potere della pernacchia in fin dei conti. Fu scelta, per il momento, la seconda opzione.

Nerio De Carlo

CRESTOMAZIA

L'amministrazione, pomposamente chiamata anche l’Istituzione, era un agglomerato di scarsità: bastava la mancanza di talento per avere successo. La sua esistenza non produceva nulla. Le lunghe riunioni di lavoro, in cui si parlava di lavoro, ma non si lavorava mai, terminavano sempre con un ignobile coro con l’esortazione a non remare finché una certa barca procedeva da sola o per spinta altrui.
Un giorno, per una di quelle inerzie , o derive, determinate talvolta dai fatti, l’Istituzione ebbe l’occasione di ampliarsi in un inconscio contesto internazionale. Gli organici si moltiplicarono non tanto nella prospettiva di un buon lavoro, bensì di un lauto stipendio. I compiti a giustificazione dei costi consistevano nella formulazione di direttive internazionali, appunto, benché nessuno dei dipendenti conoscesse una lingua straniera. C’era anzi la presunzione che la propria lingua fosse l’unica degna di essere parlata.
I risultati si notarono presto.
Soltanto le spese rimasero segrete.
Una direttiva internazionale prodotta dall’Istituzione stabilì che le maglie servissero a coprire la parte superiore del corpo. Non era cosa da poco. Dopo questo geniale esordio giunse un’interpretazione autentica della segnaletica nei luoghi pubblici. Per esempio, se una tabella proibiva l’accesso ai cani, il divieto doveva valere anche per i maialini nani, che una nuova moda aveva introdotto mettendoli al guinzaglio di certi stravaganti.
Le cose andavano bene e l’aumento degli stipendi a giustificazione dell’attività procedeva di pari passo. Un lunedì mattina giunse una donna con le natiche depresse dalla forza di gravità, la pelle a buccia di ananas e, forse, con la coscia varicosa. C’era un ufficio vuoto. La nuova venuta appose sulla porta un cartellino con il proprio nome preceduto dall’immancabile titolo accademico, la qualifica, la scritta “Crestomazia” e vi si inchiavardò.
A fine mese il cedolino della retribuzione non arrivò e la donna protestò con l’ufficio del personale.-“Provvederemo subito”, assicurò il direttore. Costui era un tipo molto preciso. Basti di re che leggeva sempre lo stesso giornale, che però il commesso doveva però comperare esclusivamente nella medesima edicola.
Una nuova direttiva, destinata allo scafale delle inutilità, era stata intanto emanata dall’Istituzione: se dei ragazzi si fanno il solletico giocando e nella smania si registrano scalfitture, queste non si configurano come lesioni personali. Inutile pensare al prezzo di una simile risoluzione.
Le riunioni di lavoro, dense di lamentele per la scarsità di denaro ma non per la penuria di intelligenza, erano state nel frattempo integrate da un giocondo canto di chiusura. Si accennava a qualcuno che avrebbe dato e ad altri che avrebbero avuto, senza entrare tuttavia nei particolari delle donazioni e senza accennare a una data, in cui la prodigalità avrebbe dovuto terminare.
Un giorno il buon umore cessò. Un controllo, ma forse si era trattato di una delazione, aveva scoperto, dopo tanto tempo, che l’occupante dell’ufficio trovato vuoto era in realtà un’intrusa. Il fatto in sé non sarebbe stato grave ma, se si fosse saputo, avrebbe potuto determinare una riduzione dei rapporti destinati alla produttività, si fa per dire. Il Direttore Generale (sarebbe stato più esatto chiamarlo direttore caporale, senza voler minimamente sminuire quest’ultima figura) chiamò l’interessata, la imborotalcò con lodi per la sua attività e con promesse per il futuro ma, poiché nell’istituzione c’erano ostilità elettive e mele marce da evitarsi (a meno che non si sia un verme), per il momento essa doveva capire l’imbarazzo che la sua presenza determinava. Certo, la mancanza della “Crestomazia”, cioè dello studio delle cose utili, sarebbe stata una cosa grave per tutti.
La donna, che per l’occasione aveva spostato parecchio in avanti le proprie linee, precisò di non digerire i digestivi e confermò che la sua mansione, la “Crestomazia” appunto, non consisteva nel semplice studio delle cose utili, bensì nella raccolta di intuizioni, espressioni, pareri, comportamenti anche privati dei responsabili, che dovevano servire da modello per tutti i subalterni. Il Direttore generale ritenne, chissà perché, di comprendere in quelle parole, specialmente in riferimento alla sfera privata, una specie di ricatto. Egli si abbottonò accuratamente la faccia in cui brillava un gioioso occhio di vetro e l’altro, quello vero, era pieno di trepidazione. Offerse quindi alla signora una consistente somma di denaro affinchè tutto potesse risolversi bonariamente. Non dice forse il proverbio che la natica vale più della grammatica, o qualcosa di simile?- Dopo vari mercanteggiamenti che non escludevano, tra l’altro, un rientro nell’ufficio in tempi più favorevoli, la donna se ne andò.
Non poteva tuttavia finire così. Il guaio era accaduto, così si supponeva, perché qualcuno aveva parlato interrompendo la complicità da assuefazione. C’era la possibilità che l’inconveniente si ripetesse, benché si trattasse di un caso isolato e, come si sa, il singolo è una minoranza estrema. Bisognava neutralizzare subito la causa. La prudenza insegna che, quando si scorgono all’orizzonte quattro cavalieri al galoppo, è saggio controllare se per caso non si tratti dell’Apocalisse.
Prove non ce n’erano. Un semplice indizio portava a una persona distintasi per certe singolarità. Questa si era, per esempio, rifiutata di partecipare al gioco d’azzardo, che ogni mercoledì aveva luogo in ambienti determinati coinvolgendo alcuni colleghi. La persona era, inoltre, sempre assente alle cene organizzate per festeggiare di non essere andati a finire nei guai o in prigione in certe circostanze. A ciò si aggiunga, infine, il fatto che il sospettato della delazione non aveva mai manifestato simpatia per quel genere di solidarietà confinante con la complicità. Per non parlare poi della sua preferenza di generi alimentari non nazionali! Non era che la persona non volesse adeguarsi alle consuetudini: semplicemente non era adatta. Il Direttore Generale convocò il personaggio e disse con voce da tenorino raffreddato:”O cambi piatto o cambi sputo”. Sì, un tipo del genere sarebbe stato capace di provocare una crisi di rigetto in certe circostanze.
La persona di cui trattasi finì in un minuscolo spazio dello scantinato, arredato con un misero tavolino e una sedia. Nessuna mansione occupava il suo tempo. La finestra mancava e a nulla sarebbe quindi servito il rotolo di robusta canapa, tenuto sempre pronto per fuggire in caso d’incendio.
L’emarginazione è quindi paurosa. Tuttavia può sembrare amica perché consente l’elaborazione del pensiero. Sempre, però, l’estromissione è infida perché il suo logorio addormenta il pensiero e impedisce la manutenzione della serenità. Chi ne è vittima diventa un uomo-insetto simile alle metafore kafkiane della Metamorfosi e della Tana.
Giunse un autunno tanto malinconico, che le foglie non volevano cadere dai rami. La persona scostata si rendeva conto che in quel bozzolo stretto e insonorizzato avvenivano dei cambiamenti fisici, le scapole sembravano alucce membranose incompiute incollate a un tozzo corpo di crisalide. La risposta a tanta ostilità nopn diventava tuttavia mai accettazione della sconfitta. Le gambe e le braccia diventavano esili come zampette. Sembrava strano che gli arti fossero solo quattro. Il torace e l’addome sembravano rigati da alcuni segmenti profondi. I capelli si erano coagulati in due antenne filiformi. Soltanto il pensiero era rimasto integro.
La coscienza che l’uomo è comunque protagonista si fece strada. L’essere umano, artigiano del pensiero, può elaborare una propria strategia per la propria esistenza e ricominciare da se stesso. In una società che tende a trasformare gli individui in insetti, prima o poi ci sarà una reazione. Bisognava perforare il bozzolo. Ci sono accorgimenti per non diventare prigionieri di se stessi. Bisogna uscire all’esterno, prendere il volo, cercare qualcosa che manca, parlare.
La porta c’era ancora e la persona emarginata uscì. Parlò con i passanti con un acuto di dignità e con la convinzione che, in ogni caso, avevano diritto di esistere tutte le parole migliori del silenzio. Rimaneva certo che in talune situazioni tutti sono disperati, ma non tutti debbono entrare o rimanere in quelle dimensioni”.
Nerio De Carlo

IL MAIALE

Il paese in riva al lago era così piccolo da sembrare quasi privato. Anche le possibilità economiche erano scarse, in quanto l’agricoltura e la fisicità contadina erano le uniche risorse. I pioppi specialmente costituivano un piccolo reddito, buoni com’erano per la produzione della carta, cioè per dare rifugio alle parole.
C’erano difficoltà per le spese della Parrocchia, com’era facile immaginare. Si era allora stabilito di allevare un maialino che, una volta divenuto adulto e grasso, sarebbe stato rivenduto ricavando un sicuro margine.
La bestiola fu comperata per pochi soldi al mercato del mercoledì. Dopo la rituale benedizione del parroco, il suino fu lasciato libero di cercarsi il cibo vagando di casa in casa come facevano i mendicanti. Era stato indicato come “ il porco di S. Antonio” e sarebbe stato benvenuto presso ogni famiglia
Destava meraviglia che il maialino non oltrepassasse i confini del paese nella sua questua quotidiana. La maggior parte degli abitanti riteneva che tale saggezza dipendesse dal viatico ottenuto con la benedizione.
Altri invece conoscevano il motivo. Quando l’animale si presentava inconsciamente in una casa dei paesi circostanti, non solo non riceveva nulla da mangiare, ma veniva cacciato in malo modo. L’esperienza aveva dunque, esattamente come per gli uomini, delimitato il raggio d’azione e l’intervento sopranaturale non centrava affatto.
Il porchetto viveva saziamente tranquillo e trascorreva la notte sotto qualche tettoia per attrezzi agricoli, che in campagna non mancava mai, dove c’era della paglia perfino. Gli tenevano compagnia i gufi soliti a “sparger voci piangendo e tragger guai”, come dice il poeta. Di giorno aveva l’occasione di confrontarsi con altri suoi simili rinchiusi nei porcili e di apprezzare la propria effimera libertà. Aveva anche imparato che i cani consideravano gli esseri umani come superiori, mentre i gatti li ritenevano inferiori a loro. Il porco di Sant’Antonio era dunque completamente ignaro del proprio destino.
Non conoscere l’avvenire è certamente un bene, anche se permane una certa curiosità di fondo. In ogni caso l’avvenire non ha niente di reale. È come se il giorno ci accusasse di adulterio perché la notte ha dormito nelle nostre stanze.
Una volta, mentre succhiava la linfa ascendete di uno stelo di verbena, l’animale aveva sentito certi studentelli discutere se il maiale fosse causa o effetto della propria sorte, ma l’argomento non risultava chiaro né ai saputelli, né all’interessato. Egli pensò di rivolgersi a una gallina, che era una specie di veggente, per una spiegazione.-“Vedo solo salami e cotechini nel prossimo inverno …”, fu la fumosa risposta. I maghi, si sa, sono spesso poco chiari e la credulità non è la fede. In ogni caso anche i polli non avrebbero poi particolari motivi per stare tranquilli, ma chi può spiegare loro che il Natale è una bella festa?
Il porco di Sant’Antonio cresceva tra la soddisfazione degli abitanti del paese. Egli era in generale indifferente nei confronti degli altri animali. Un’eccezione però ci sarebbe stata. Si trattava di una porchetta baffuta e paffuta di proprietà del mugnaio, che esibiva un grugnito erotizzato dall’accento montanaro: un esemplare volubile e di scarsa reputazione.
Una mattina il maiale appena sveglio vide le pensose magnolie coperte di neve. Quello era il primo inverno della sua vita. Sarebbe stato anche l’ultimo? – Come si sa , anche gli animali sognano e gli era apparsa nel sonno una figura indistinta che gli disse: “Sono il senso orario”. Che cosa poteva significare se non un quadrante come quello sul campanile, nel quale erano segnate le ore prima verso destra e poi verso sinistra di chi guarda? In ogni caso era troppo difficile da comprendere per un maiale. Il freddo dell’inverno consigliò alla bestiola di rifugiarsi il un luogo meno esposto alle intemperie. C’era uno spazio chiamato “la stalla dell’asino”, la cui porta era soltanto socchiusa in fondo a un portico. Sembrava un luogo adatto e fu così per un certo tempo.
Una mattina il porco di Sant’Antonio si svegliò per la questua giornaliera e si accorse che la porta della stalla era chiusa, inspiegabilmente sbarrata. Più tardi due uomini lo afferrarono, lo caricarono su un carro transennato insieme ad altri suini per il trasporto al mercato del mercoledì, lo stesso dove egli era stato acquistato per pochi soldi parecchi mesi prima.

Nerio De Carlo

M O R T E

Ogni creatura consiste in due realtà:
individuo distinto fra gli altri
e persona aperta verso il mondo.

L’individuo è costretto in una capsula
gonfia di egoismo, ambizioni, sofferenza;
la persona abita in associazione.

Anche se ci manca la diretta esperienza,
la morte è un problema per l’individuo
ma non per la persona umana.

Ognuno di noi è come una goccia d’acqua.
Che succede a una stilla d’acqua
quando cade nell’immenso mare?

La forma sferica svanisce come tale,
ma alla sua acqua non accade proprio nulla:
si scioglie nel mare conservando la sua natura.

Nerio de Carlo

LA MIA TERRA

La mia terra aveva i gelsi
con le more bionde e blu.

La mia terra aveva i larìn affumicati,
ora usa termosifoni di ghisa colorati

La mia terra non è più
come la vedo nei miei sogni brevi come un bruco:

folte siepi di umile sambuco
con le foglie verdi e bacche blu.

La mia terra non legge i miei versi appassionati,
scritti in esilio in momenti disperati.

La mia terra, una sera che è un po’ distratta,
me la prendo e nessuno saprà dov’è andata.

Chissà se la mia terra mi accoglierà clemente
quando morirò: tanto è l’ultima volta, veramente.

La mia terra, la mia terra!
Ma la mia terra non c’è più.

Nerio de Carlo