venerdì 15 ottobre 2010

CRESTOMAZIA

L'amministrazione, pomposamente chiamata anche l’Istituzione, era un agglomerato di scarsità: bastava la mancanza di talento per avere successo. La sua esistenza non produceva nulla. Le lunghe riunioni di lavoro, in cui si parlava di lavoro, ma non si lavorava mai, terminavano sempre con un ignobile coro con l’esortazione a non remare finché una certa barca procedeva da sola o per spinta altrui.
Un giorno, per una di quelle inerzie , o derive, determinate talvolta dai fatti, l’Istituzione ebbe l’occasione di ampliarsi in un inconscio contesto internazionale. Gli organici si moltiplicarono non tanto nella prospettiva di un buon lavoro, bensì di un lauto stipendio. I compiti a giustificazione dei costi consistevano nella formulazione di direttive internazionali, appunto, benché nessuno dei dipendenti conoscesse una lingua straniera. C’era anzi la presunzione che la propria lingua fosse l’unica degna di essere parlata.
I risultati si notarono presto.
Soltanto le spese rimasero segrete.
Una direttiva internazionale prodotta dall’Istituzione stabilì che le maglie servissero a coprire la parte superiore del corpo. Non era cosa da poco. Dopo questo geniale esordio giunse un’interpretazione autentica della segnaletica nei luoghi pubblici. Per esempio, se una tabella proibiva l’accesso ai cani, il divieto doveva valere anche per i maialini nani, che una nuova moda aveva introdotto mettendoli al guinzaglio di certi stravaganti.
Le cose andavano bene e l’aumento degli stipendi a giustificazione dell’attività procedeva di pari passo. Un lunedì mattina giunse una donna con le natiche depresse dalla forza di gravità, la pelle a buccia di ananas e, forse, con la coscia varicosa. C’era un ufficio vuoto. La nuova venuta appose sulla porta un cartellino con il proprio nome preceduto dall’immancabile titolo accademico, la qualifica, la scritta “Crestomazia” e vi si inchiavardò.
A fine mese il cedolino della retribuzione non arrivò e la donna protestò con l’ufficio del personale.-“Provvederemo subito”, assicurò il direttore. Costui era un tipo molto preciso. Basti di re che leggeva sempre lo stesso giornale, che però il commesso doveva però comperare esclusivamente nella medesima edicola.
Una nuova direttiva, destinata allo scafale delle inutilità, era stata intanto emanata dall’Istituzione: se dei ragazzi si fanno il solletico giocando e nella smania si registrano scalfitture, queste non si configurano come lesioni personali. Inutile pensare al prezzo di una simile risoluzione.
Le riunioni di lavoro, dense di lamentele per la scarsità di denaro ma non per la penuria di intelligenza, erano state nel frattempo integrate da un giocondo canto di chiusura. Si accennava a qualcuno che avrebbe dato e ad altri che avrebbero avuto, senza entrare tuttavia nei particolari delle donazioni e senza accennare a una data, in cui la prodigalità avrebbe dovuto terminare.
Un giorno il buon umore cessò. Un controllo, ma forse si era trattato di una delazione, aveva scoperto, dopo tanto tempo, che l’occupante dell’ufficio trovato vuoto era in realtà un’intrusa. Il fatto in sé non sarebbe stato grave ma, se si fosse saputo, avrebbe potuto determinare una riduzione dei rapporti destinati alla produttività, si fa per dire. Il Direttore Generale (sarebbe stato più esatto chiamarlo direttore caporale, senza voler minimamente sminuire quest’ultima figura) chiamò l’interessata, la imborotalcò con lodi per la sua attività e con promesse per il futuro ma, poiché nell’istituzione c’erano ostilità elettive e mele marce da evitarsi (a meno che non si sia un verme), per il momento essa doveva capire l’imbarazzo che la sua presenza determinava. Certo, la mancanza della “Crestomazia”, cioè dello studio delle cose utili, sarebbe stata una cosa grave per tutti.
La donna, che per l’occasione aveva spostato parecchio in avanti le proprie linee, precisò di non digerire i digestivi e confermò che la sua mansione, la “Crestomazia” appunto, non consisteva nel semplice studio delle cose utili, bensì nella raccolta di intuizioni, espressioni, pareri, comportamenti anche privati dei responsabili, che dovevano servire da modello per tutti i subalterni. Il Direttore generale ritenne, chissà perché, di comprendere in quelle parole, specialmente in riferimento alla sfera privata, una specie di ricatto. Egli si abbottonò accuratamente la faccia in cui brillava un gioioso occhio di vetro e l’altro, quello vero, era pieno di trepidazione. Offerse quindi alla signora una consistente somma di denaro affinchè tutto potesse risolversi bonariamente. Non dice forse il proverbio che la natica vale più della grammatica, o qualcosa di simile?- Dopo vari mercanteggiamenti che non escludevano, tra l’altro, un rientro nell’ufficio in tempi più favorevoli, la donna se ne andò.
Non poteva tuttavia finire così. Il guaio era accaduto, così si supponeva, perché qualcuno aveva parlato interrompendo la complicità da assuefazione. C’era la possibilità che l’inconveniente si ripetesse, benché si trattasse di un caso isolato e, come si sa, il singolo è una minoranza estrema. Bisognava neutralizzare subito la causa. La prudenza insegna che, quando si scorgono all’orizzonte quattro cavalieri al galoppo, è saggio controllare se per caso non si tratti dell’Apocalisse.
Prove non ce n’erano. Un semplice indizio portava a una persona distintasi per certe singolarità. Questa si era, per esempio, rifiutata di partecipare al gioco d’azzardo, che ogni mercoledì aveva luogo in ambienti determinati coinvolgendo alcuni colleghi. La persona era, inoltre, sempre assente alle cene organizzate per festeggiare di non essere andati a finire nei guai o in prigione in certe circostanze. A ciò si aggiunga, infine, il fatto che il sospettato della delazione non aveva mai manifestato simpatia per quel genere di solidarietà confinante con la complicità. Per non parlare poi della sua preferenza di generi alimentari non nazionali! Non era che la persona non volesse adeguarsi alle consuetudini: semplicemente non era adatta. Il Direttore Generale convocò il personaggio e disse con voce da tenorino raffreddato:”O cambi piatto o cambi sputo”. Sì, un tipo del genere sarebbe stato capace di provocare una crisi di rigetto in certe circostanze.
La persona di cui trattasi finì in un minuscolo spazio dello scantinato, arredato con un misero tavolino e una sedia. Nessuna mansione occupava il suo tempo. La finestra mancava e a nulla sarebbe quindi servito il rotolo di robusta canapa, tenuto sempre pronto per fuggire in caso d’incendio.
L’emarginazione è quindi paurosa. Tuttavia può sembrare amica perché consente l’elaborazione del pensiero. Sempre, però, l’estromissione è infida perché il suo logorio addormenta il pensiero e impedisce la manutenzione della serenità. Chi ne è vittima diventa un uomo-insetto simile alle metafore kafkiane della Metamorfosi e della Tana.
Giunse un autunno tanto malinconico, che le foglie non volevano cadere dai rami. La persona scostata si rendeva conto che in quel bozzolo stretto e insonorizzato avvenivano dei cambiamenti fisici, le scapole sembravano alucce membranose incompiute incollate a un tozzo corpo di crisalide. La risposta a tanta ostilità nopn diventava tuttavia mai accettazione della sconfitta. Le gambe e le braccia diventavano esili come zampette. Sembrava strano che gli arti fossero solo quattro. Il torace e l’addome sembravano rigati da alcuni segmenti profondi. I capelli si erano coagulati in due antenne filiformi. Soltanto il pensiero era rimasto integro.
La coscienza che l’uomo è comunque protagonista si fece strada. L’essere umano, artigiano del pensiero, può elaborare una propria strategia per la propria esistenza e ricominciare da se stesso. In una società che tende a trasformare gli individui in insetti, prima o poi ci sarà una reazione. Bisognava perforare il bozzolo. Ci sono accorgimenti per non diventare prigionieri di se stessi. Bisogna uscire all’esterno, prendere il volo, cercare qualcosa che manca, parlare.
La porta c’era ancora e la persona emarginata uscì. Parlò con i passanti con un acuto di dignità e con la convinzione che, in ogni caso, avevano diritto di esistere tutte le parole migliori del silenzio. Rimaneva certo che in talune situazioni tutti sono disperati, ma non tutti debbono entrare o rimanere in quelle dimensioni”.
Nerio De Carlo

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