venerdì 21 gennaio 2011

La sprezzatura

Fin da quando l’artista traversava la fase del cosiddetto “tirocinio”, peraltro già scandita da episodi creativi sostanziosi e felici, ogni esposizione di Sonia Ros rappresenta un evento.
La cosa ha in sé dell’eccezionale, dal momento che le occasioni di rilievo hanno avuto cadenza assai ravvicinata e gli allestimenti sono stati costantemente frequentati da un cospicuo numero di “amatori”, che solo in minima parte appartengono alla categoria dei “conoscitori” delle vicende artistiche contemporanee; quegli amatori, insomma, che ci si spetterebbe di incontrare solo in occasioni “confermative”, quando ad esporre è un artista consacrato, il cui linguaggio è da tempo sedimentato e sostanzialmente ripetitivo.
Invece, forzando i termini “matti e disperatissimi” le tappe del suo processo evolutivo e presentando in ogni occasione solo il segmento più avanzato della sua produzione, Sonia Ros ha offerto sempre nuove ragioni di scoperta, di discussione e di stupore, sollecitato dalla declinazione di una grammatica inusuale, concettualmente complessa, e tuttavia in grado di comunicare con sorprendente immediatezza.
Ritengo che con questa proprietà comunicativa dipenda dalla lucidità d’intenti dell’artista. Partita da composizioni “di figura”, nelle quali trasparivano i riferimenti alle dissonanze, all’irrequietezza e al lirismo erotico propri dell’arte mitteleuropea del primo Novecento, Ros ha focalizzato subito un suo interesse tutto particolare per il Corpo, inteso come unità somatico-spirituale e archetipica sorgente d’energia.
Anche nel delicato passaggio dell’abbandono della figurazione, la pittrice ha dimostrato chiarezza d’intenti.
Le impennature e gli “sfigmi”, che in una prima sintesi contrappuntavano i brani di pittura materica, così come le liquide luminosità, le trasparenze pastello, la sperimentazioni ora gradevolmente “ipertonali”, ora rotte da dissonanze acide e “antigraziose” delle prove successive, non sono in alcun modo riconducibili a un “atto di osservanza” all’accademica declinazione astratto/informale del Novecento maturo (che, anche per motivi anagrafici, Sonia Ros non poteva che considerare come retaggio anacronistico, se adottata “in toto” e con pedissequa osservanza).
Le sperimentazioni di cui l’artista ha fatto uso sono invece indizi del caparbio affinamento linguistico, che è passato attraverso l’appropriazione e la libera rilettura del capriccioso grafismo di Tancredi, del gesto di Mathieu, della cifra segnico-evocativa di Cy Twombly, del “primitivismo” di Pinot Gallizio, del repertorio astratto-surreale di Sebastian Matta. Queste reinterpretazioni non hanno mai rappresentato finezze formali fine a se stesse. Sono risultate invece necessarie per esprimere, in termini sempre sorvegliati e motivati, la fondamentale fedeltà alla macrotematica individuata nelle prove iniziali: l’epifania del Corpo, divenuto, nell’evoluzione espressiva, mondo totalmente esplorabile, spazio pervio, luogo pulsionale, “macchina” del desiderio.
Il tema è divenuto evidente nelle opere del 2006, quando i singoli segni, caricati fino ad allora di autonoma significazione, si sono ordinati in forme di sublime consistenza, identificandosi in ampolle, tubicoli, vesciche e simil-organi. Sonia Ros inventava, in quelle tele, elaborati organismi non tanto organizzati quanto organizzabili: apparati antinaturalistici, labirintici, disponibili a essere letti attraverso i differenti percorsi di volta in volta identificati dal desiderio dello spettatore.
Poco tempo è oggettivamente passato da allora, ma profonda e laboriosissima è stata la revisione a cui Sonia Ros ha sottoposto i suoi strumenti espressivi. L’atmosfera algida o vitrea, l’insistenza dei grigi, la dominante acquorea, da cui emergono elementi vagamente anatomici, appena leggibili, eppure evocati con precisione istologica, tipici dei lavori di qualche anno fa, hanno lasciato spazio a una nuova consistenza e plasticità delle forme, sostanzialmente concluse e rispondenti a una differenza compattezza compositiva, enfatizzata nel suo dinamismo da uno sfondo a campitura piena, piatta, monocroma, talora volutamente neutro, talora enfaticamente squillante di rossi, di gialli ocra, di blu. Se, nella loro complicata aggregazione, queste forme sono caratterizzate dalla fluttuante leggiadria dell’organico e da effetti volumetrici, tuttavia non disdegnano di contaminarsi con elementi geometrici bidimensionali, in una inedita sintesi bionica dall’impatto quasi “pop”. Una sintesi che si direbbe orientare la composizione verso l’astrazione pura, se non fosse che, nelle prove presenti, l’invenzione è ottenuta attraverso una sorta di patchwork di ascendenza surrealista, grazie all’inserzione di elementi eterogenei e ancora una volta inaspettati, che giungono a mimare, con realistica esattezza, la stoffa, la piuma, il vello animale, la peluria corporea, le ciglia. Non può passare inosservato il fatto che, per la presente esposizione, si sia operato per il titolo, a una prima lettura sibillino, Autoritratti. Esso certamente lascerà perplesso chi si aspetti do trovarsi di fronte a una serie di opere rispondenti a un genere pittorico storicizzato. Tuttavia non deluderà chi saprà cogliere il senso del “teatro del Sé” approntato dall’artista, che si espone anche nel suo essere-donna in modo per nulla retorico, ma comunque radicale e provocatorio: un gioco metonimico, che mette in scena, in termini quasi joyciani, non la totalità (irrappresentabile) dell’Io, ma gli elementi dell’auto-rappresentazione e della rappresentazione sociale, che danno consistenza alla riflessione sul Corpo al femminile, al quale sono inscindibilmente connessi gli elementi di seduzione e di travestimento che la femminilità adotta e “incorpora”: i vestimenti, gli accessori cosmetici, i paràpherna, ovvero quegli oggetti “intimi” , che un antico termine giuridico indica come “estranei a ciò che ogni donna porta in dote”.
È facilmente ravvisabile, anche in questa nuova stazione dell’avventura espressiva di Sonia Ros, il filo rosso che collega le opere più recenti alle precedenti, rappresentato dall’indagine della corporeità come veicolo dell’eros; un eros obliquo, che tutto pervade e che pure è proposto senza alcuna sottolineatura dissacrante o trasgressiva; anzi, è tenuto costantemente sotto traccia, sussurrato e alluso con ironia.
Ma in queste opere è ravvisabile anche l’ulteriore approfondimento espressivo, che pur confermando il definitivo congedo da ogni modalità rappresentativa, secondo i dettami di una contemporaneità profondamente assimilata, tuttavia non rinuncia a mantenere un contatto costante e diretto con “la vita” ,intesa come personale circostanza, incidente, aneddoto, fatto minimo, gesto quotidiano, significante al di là di ogni pretesa interpretativa, attraverso un linguaggio agile e immediato.
In questo senso, le opere recenti di Sonia Ros, che coniugano concetto e sensualità con disinvoltura magistrale, riattualizzano la sprezzatura di cui parla Baldassar Castiglione nel Cortegiano, che consiste nell’abilità di proporre “cose rare e ben fatte” facendole apparire facili, concepite “senza fatica e quasi senza pensarvi”. È questa leggerezza a suscitare, in chi guarda, il senso di “meraviglia”.

Fabio Girardello

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