lunedì 8 aprile 2013
P E D A G O G I A
Racconto di Nerio de Carlo
La scuola rigorosamente maschile
e retta da religiosi era ai margini della città. Le ragazze studiavano dalle
monache.
Un giorno l'Istituto femminile
chiuse e le allieve frequentarono la
scuola ex maschile.
In autunno, la stagione dal gusto
di mela, nell'aula della V^ liceo c'erano venti studenti e tredici studentesse.
Il tradizionale “banco degli asini” era stato abolito. Gli insegnanti, a causa
delle poche vocazioni, erano laici.
Le difficoltà, se così si possono
definire, erano rappresentate dalle professoresse di lettere e di matematica.
La prima era una persona solo tendenzialmente femminile e con una quantità
irrilevante di estrogeni. Benché non
fosse più in garanzia il suo corpo
appariva ancora poco usato dal tempo. I
capelli erano brinati di colore nero. Accettabile tutto sommato.- La seconda,
priva di successo come donna, cercava di averlo come uomo, per dirlo con le
parole di Pittigrilli. Essa si credeva comunque bella e, se un giorno le fosse
sembrato il contrario, riteneva di avere sbagliato specchio. Entrambe fingevano
di essere delle adolescenti per conquistare la simpatia degli allievi.
Diverso era il gruppo delle
studentesse, l'altra metà del Pantheon con tanto di stimmate da depilazione
improvvisata e indubbie convessità.
Le tredici ragazze avevano un hardware
notevole e un software niente male. Due di queste risaltavano tuttavia
per ragioni diverse e rievocavano un celebre dipinto del Botticelli: una
sembrava Venere ; l'altra somigliava alla cozza che sta sotto i suoi piedi .
Oppure, se si preferisce, la prima era fatta come un'anfora greca ed era
chiamata “la bella”; la
seconda come un'urna antica ed era chiamata “la
brutta”.
Il nome proprio di entrambe le
fanciulle cominciava con “U”.
Bisognava ammetterlo. La più
avvenente aveva una fisionomia slava tradotta in ovale gotico. Le bretelle
sulla sua camicetta bianca facevano uno
strano effetto a parentesi. Una bella presenza con forme geometriche a tutto
tondo esagerata perfino in paradiso.
Quasi tutte le altre avevano la
pelle che tremava sotto le lentiggini ed erano invidiose. Quando parlavano
dell'amica più leggiadra, usavano un appellativo rievocante una antica città
omerica.
Una parte dei maschi, invece,
avrebbe desiderato una amica così pneumatica. Tutti erano naturalmente concordi
nell'affermare che gli amici preferiti da lei sono sempre degli imbecilli. Il
più geniale tra loro, bravo in matematica, osservò che l'infinito e la donna
sono incomprensibili perché nessuno dei due può venire elevato al quadrato,
come aveva sostenuto Novalis.
Un giorno la ragazza vagheggiata
aveva spostato parecchio in avanti le proprie linee e un condiscepolo le
disse:”Tu non sei rifatta dal chirurgo plastico. Io invece sì: quando ti
guardo mi rifaccio gli occhi”.
Tutto bene quindi? Nemmeno per
sogno. Le due allieve furono usualmente e crudelmente sempre distinte dai loro
compagni come U. la bella e U. la brutta. I cognomi
erano stati praticamente aboliti. La consuetudine fu acquisita anche dagli
insegnanti omettendo i cognomi.
L'appello all'inizio delle
lezioni era, ed è sempre, un obbligo nella scuola. La professoressa di
matematica, arrivata alla lettera “U”, udì un “assente”. Senza
riflettere chiese:”Quale? La bella?”.Poi comprese di avere indovinato: U
“la brutta” era al suo posto e la fissava.
lunedì 18 marzo 2013
sabato 14 gennaio 2012
La leggenda del Santo Trovatore

Dal libro “ La leggenda del Santo Trovatore “ di Nerio De Carlo
A cura dell’Associazione Trevisani nel Mondo, Sezione di Oderzo,
L’Associazione Trevisani nel Mondo, Sezione di Oderzo, esprime il più vivo ringraziamento all’Autore Prof. Nerio De Carlo, alla Confcommercio, mandamento di Oderzo-Motta di Livenza, ed alla Banca di Credito Cooperativo del Piave e del Livenza di Mansuè per aver reso possibile la realizzazione della presente pubblicazione.
A cura dell’Associazione Trevisani nel Mondo, Sezione di Oderzo,
L’Associazione Trevisani nel Mondo, Sezione di Oderzo, esprime il più vivo ringraziamento all’Autore Prof. Nerio De Carlo, alla Confcommercio, mandamento di Oderzo-Motta di Livenza, ed alla Banca di Credito Cooperativo del Piave e del Livenza di Mansuè per aver reso possibile la realizzazione della presente pubblicazione.
Il Presidente
Cav. Luigi Serafin
Cav. Luigi Serafin
PRESENTAZIONE
Leone Tolstoj sostenne: “Se vuoi essere universale parla del tuo paese”.Questo autorevole consiglio è continuamente nell’opera che qui presentiamo, tanto è vero che i luoghi, così familiari all’autore, potrebbero essere sottolineati in una carta topografica del nostro Comprensorio.
Questa raccolta di racconti, il cui titolo rievoca nelle assonanze un capolavoro della letteratura mitteleuropea, contiene naturali ingredienti delle radici umane. Solo la loro sequenza è dubbiosamente singolare e viene da chiederci se l’autore abbia vissuto nei suoi racconti, oppure li abbia inventati per viverci dentro. In ogni caso sembra che l’umorismo e il paradosso siano la sua versione della serietà.
In ogni pagina di queste scritture dell’identità c’è un messaggio, talvolta palese, spesso cifrato. Ogni racconto dovrebbe essere letto più volte per capire il linguaggio di chi sogna per conto terzi. Le frasi sono prive di museruola , caustiche, trasgressive. Per comprenderle del tutto ci vorrebbe l’accalappiasogni.
Questo libro è un investimento in cultura da parte di settori produttivi, quello bancario e quello commerciale, noti per avere da sempre perseguito il profitto. Non è più così. Una parte dei proventi viene ora investita nella valorizzazione di una visione del mondo che appartiene al nostro tessuto socio-culturale, affinchè non si dimentichi che anche il successo, il progresso e l’immagine di una comunità sono opera di gente che pensa, lavora, si stupisce, soffre e sorride come i personaggi che abitano nelle righe che seguono.
La comunità vegetale, gli insetti e i personaggi di queste pagine sono immaginari ed ogni riferimento alla realtà è puramente casuale.
CONFCOMMERCIO
Associazione Commercio Turismo e Servizi
Mandamento di Oderzo-Motta di Livenza
Il Presidente
Bruno Andreetta
Associazione Commercio Turismo e Servizi
Mandamento di Oderzo-Motta di Livenza
Il Presidente
Bruno Andreetta

PREFAZIONE
La cultura è una caratteristica specifica dell’umanità che crea e moltiplica valori materiali e spirituali. Valori come la letteratura che si incontra percorrendo i racconti di Nerio De Carlo. Valori come la cooperazione, del quale la nostra Banca di Credito Cooperativo del Piave e del Livenza ha fatto l’essenza stessa della propria anima. Letteratura e cooperazione legati insieme da un filo insolito ma non per questo meno tenace: la migrazione.La nostra Banca, impresa sociale fatta di persone prima che di capitali, ha scelto di sostenere l’edizione di questi racconti, nel quadro delle iniziative culturali che da qualche anno la vedono attenta madrina. Andando indietro nel tempo troviamo le pubblicazioni “Basalghelle, appunti della nostra storia”, “Le stelle forse non esistono nemmeno”, “Francesco Dall’Ongaro, la voce della coscienza”, la guida al museo storico di Maserada sul Piave “1917-1918 il Piave , la memoria”. Opere letterarie diverse tra loro, aventi quale comune denominatore la promozione della cultura fra i due fiumi che troviamo nel nostro nome: la Piave e la Livenza.
Lo sviluppo della cultura costituisce un processo costante di trasmissione delle esperienze e delle conoscenze da una generazione all’altra. Se la continuità di questa evoluzione si interrompe, la cultura cessa di esistere e cade nell’oblìo. La cultura dei nostri padri è radicata nel cuore dei migranti, che con struggente nostalgia rimembrano tradizioni e consuetudini della loro terra, nostalgia che troviamo in alcune righe di questi racconti.
Scopo di un istitutori credito è perseguire il profitto. Per una Banca di Credito Cooperativo qual’ è la nostra, la sua missione si misura, prima che in termini monetari, nelle espressioni di crescita sociale e culturale della comunità. Poiché, a comporre quest’ultima ci sono pure i Soci della Banca di Credito Cooperativo, le persone per le quali essa opera ponendole sempre al centro della propria azione.
Ci auguriamo che questa raccolta possa costituire un momento di piacevole lettura e un invito a soffermarsi sulla ricchezza di presenze e di segni racchiusi nel nostro territorio fra Piave e Livenza.
Cav. Ireneo Miotto
Presidente il Consiglio di Amministrazione
Della Banca di Credito Cooperativo
Del Piave e del Livenza
In ricordo del fratello Bruno:
"La vita ha perso contro la morte,
ma la memoria vince nella lotta
contro il nulla"
(Tzvetan Todorov, Les abus de e memoir)
Presidente il Consiglio di Amministrazione
Della Banca di Credito Cooperativo
Del Piave e del Livenza
In ricordo del fratello Bruno:
"La vita ha perso contro la morte,
ma la memoria vince nella lotta
contro il nulla"
(Tzvetan Todorov, Les abus de e memoir)
LA SCUOLA DEI PESCI
C’erano una volta due fiumi: il Piave e la Livenza. Essi avevano un figliolo di nome Rasego, al quale piaceva attraversare un paese che si chiamava Basalghelle. Gli piaceva anche giocare con una pianta acquatica dalle vaste foglie verdi e dal fiore giallo splendido che si apriva solo di giorno per la gioia delle libellule dai grandi occhi: la calta palustre.
Vicino al ponte che scavalcava il Rasego c’èra la scuola per i pesci. La frequentavano otto piccole tinche con la pinna e la coda corte, sette piccoli lucci col dorso grigio e col ventre bianco, quattro piccole anguille dal colore verde sudicio di sopra e gialliccio di sotto, tre carpe ripetenti con tante squame, un piccolo pesce gatto con la testa grossa e due strani filamenti che sembravano lunghi baffi neri. Il nome di questo alunno era Marson.
Il pesce gatto non era ne’ più intelligente, ne’ più stupido degli altri scolari. Aveva imparato a scola che i pesci grossi mangiano i pesci piccoli e perciò evitava i pesci più grandi di lui. Non era una precauzione da poco. Aveva anche imparato che sull’acqua non si può scrivere e che certi vermi, i lombrichi, avevano un buon sapore, ma gli sembrava una diceria che la gente infilasse vermi in un amo per attirarae i pesci, in quanto nessuno de malcapitati glielo aveva potuto raccontare realmente.
Accadde così, in un brutto giorno, che il pesce gatto addentò un vermiciattolo penzolante nell’acqua. Un amo gli perforò subito il labbro superiore e il dolore fu grande. Si accorse poi che era stato tirato fuori dall’acqua poiché l’amo era legato a un filo. Per la prima volta vide anche un uomo sulla riva con una lunga canna in mano.
Mentre il pesce gatto era ancora appeso al filo, imparò quanto la scuola gli aveva insegnato e cioè che qualcuno usava veramente vermi come esca per catturare i pesci! Ma era troppo tardi.
Il pesce gatto non si arrese. Si dimenò con furia sperando di staccarsi dall’amo ma questo penetrava sempre più nel suo muso e faceva ancora più male. Provò perfino a supplicare il pescatore: “ Ti prego, lasciami tornare nell’acqua”. Ma l’uomo non capiva la lingua dei pesci, oppure non voleva comprenderla, e staccò il pesce dall’amo,ma solo per gettarlo in un secchio nascosto tra i cespugli, dove c’erano già altri pesci, tutti con un foro sul muso dal quale usciva sangue. – “Eccone un altro che non ha voluto credere quanto sia crudele l’uomo”, ripetevano piangendo i pesci nel secchio.
Il pesce gatto non voleva ammettere la realtà e disse: “Forse non tutti gli uomini sono così”.
- Gli altri lo compatirono e risposero: “Nemmeno ora sei in grado di capire e di imparare”.
Una ragazzina del paese, Ana Katharina, era intanto arrivata furtivamente sul posto e aveva visto il secchio con i pesciolini disperati. Immaginate che cosa fece.
Vicino al ponte che scavalcava il Rasego c’èra la scuola per i pesci. La frequentavano otto piccole tinche con la pinna e la coda corte, sette piccoli lucci col dorso grigio e col ventre bianco, quattro piccole anguille dal colore verde sudicio di sopra e gialliccio di sotto, tre carpe ripetenti con tante squame, un piccolo pesce gatto con la testa grossa e due strani filamenti che sembravano lunghi baffi neri. Il nome di questo alunno era Marson.
Il pesce gatto non era ne’ più intelligente, ne’ più stupido degli altri scolari. Aveva imparato a scola che i pesci grossi mangiano i pesci piccoli e perciò evitava i pesci più grandi di lui. Non era una precauzione da poco. Aveva anche imparato che sull’acqua non si può scrivere e che certi vermi, i lombrichi, avevano un buon sapore, ma gli sembrava una diceria che la gente infilasse vermi in un amo per attirarae i pesci, in quanto nessuno de malcapitati glielo aveva potuto raccontare realmente.
Accadde così, in un brutto giorno, che il pesce gatto addentò un vermiciattolo penzolante nell’acqua. Un amo gli perforò subito il labbro superiore e il dolore fu grande. Si accorse poi che era stato tirato fuori dall’acqua poiché l’amo era legato a un filo. Per la prima volta vide anche un uomo sulla riva con una lunga canna in mano.
Mentre il pesce gatto era ancora appeso al filo, imparò quanto la scuola gli aveva insegnato e cioè che qualcuno usava veramente vermi come esca per catturare i pesci! Ma era troppo tardi.
Il pesce gatto non si arrese. Si dimenò con furia sperando di staccarsi dall’amo ma questo penetrava sempre più nel suo muso e faceva ancora più male. Provò perfino a supplicare il pescatore: “ Ti prego, lasciami tornare nell’acqua”. Ma l’uomo non capiva la lingua dei pesci, oppure non voleva comprenderla, e staccò il pesce dall’amo,ma solo per gettarlo in un secchio nascosto tra i cespugli, dove c’erano già altri pesci, tutti con un foro sul muso dal quale usciva sangue. – “Eccone un altro che non ha voluto credere quanto sia crudele l’uomo”, ripetevano piangendo i pesci nel secchio.
Il pesce gatto non voleva ammettere la realtà e disse: “Forse non tutti gli uomini sono così”.
- Gli altri lo compatirono e risposero: “Nemmeno ora sei in grado di capire e di imparare”.
Una ragazzina del paese, Ana Katharina, era intanto arrivata furtivamente sul posto e aveva visto il secchio con i pesciolini disperati. Immaginate che cosa fece.
Nerio De Carlo
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