Dal libro “Luigi Borsoi MEMORIE DI UN MARESCIALLO DEI
CARABINIERI(1877-1967)pag.110-119
a cura di Mario Borsoi
Nicolosi lì 23 agosto 1911
Dal giorno 12 corrente dimoro in
questo paese che trovasi a Nord ed a 15 chilometri da Catania. È popolato da
circa4000 persone che, durante l’estate, arrivano perfino a 4500 per
l’affluenza dei villeggianti che vengono a respirare quest’aria fresca, in
quanto il paese trovasi a 720 metri sul livello del mare.
La popolazione è di carattere
piuttosto mite e poco dedita ai reati. Un quinto degli operai si può calcolare
che trovasi nelle Americhe per ragioni di lavoro. Gli altri rimasti si danno al
trasporto di combustibile e di neve durante l’estate, ed al lavoro nei vigneti
risparmiati dalla lava. La classe agiata, dopo la consueta gita mattutina a
cavallo fatta ai loro possedimenti, si accalca al Circolo chiamato dei Civili
dove qualcuno dà una passata al giornale mentre i nove decimi giocano a
carte ed a biliardo fino a ora tarda
della sera.
Non vi sono industrie e soltanto
una quarta parte della superficie è coltivabile, mentre l’altra è coperta da
uno strato di lava che varia dai 5 ai 15 metri.
Nella giurisdizione di questo
Comune trovasi il terribile vulcano Etna il quale, se nei periodi di quiete è
bello a vedere, durante le eruzione incute spavento alle popolazioni. La lava,
che nei giorni di eruzione esce dalle bocche che per l’occasione si aprono,
durante il suo percorso semina miseria ovunque passa. Nessun riparo giova a
frenare la lava. Le case che incontra vengono schiacciate; gli alberi, siano
pure grossi, al più piccolo contatto con la lava cadono e, riversandosi su di
essa, scompaiono in una sola fiammata.
Questo paese, normalmente
monotono, durante le eruzioni prende l’aspetto di una città in festa. Se i
danneggiati piangono e urlano, i loro lamenti vengono coperti dalle risate e
dal vocio dei curiosi che da tanto lontano partono per portarsi sul posto del
terribile spettacolo.
Nei tempi normali difficilmente
si vede un’automobile a Nicolosi, ma durante le sciagure che lo colpiscono le
sue vie sono affollate di quei veicoli tanto veloci che da ogni parte d’Europa
portano i loro proprietari sul luogo del dolore e del gaudio.
Fin dal primo giorno che giunsi a
Nicolosi fui animato dal desiderio di recarmi alla bocca del cratere principale,
ma per portarsi colà non basta il desiderio: occorre pure un mulo, una guida e
una discreta provvigione di viveri. Si tratta che, con un mulo, ci si impiega
non meno di otto ore per giungere al detto cratere che si trova a 3303 metri
sul livello del mare. Oggi però ho tutto preparato e domattina alle ore
quattro, se i miei progetti non verranno guastati, assieme ad un carabiniere e
ad altri sette signori comincerò l’ascesa.
Ecco che l’alba del giorno 24
agosto 1911 è imminente.
L’appuntamento è di trovarsi alle
ore quattro al principio della Via Etna; difatti, all’ora prestabilita ci
troviamo tutti pronti.
I componenti della comitiva sono:
BOGGILERO ENRICO studente universitario; LONGO SALVATORE; MONTESANO ANTONIO possidente; ARENA LUIGI possidente;
CUSCUNA’ ANTONIO studente; BORZI GIUSEPPE possidente; il carabiniere RIBBERA ed
il sottoscritto BORSOI LUIGI.
Il cielo terso e la temperatura
fresca e senza vento mi fanno sperare che la gita riuscirà splendida.
Mi viene affidato un mulo che
monto con poca disinvoltura, ma in ogni modo mi reggo sopra.
Per circa mezzora la strada Etna,
piuttosto larga a fondo naturale, ha uno strato di circa 20 cm. di detriti di lava fini quanto la sabbia ed è
fiancheggiata da muri bassi e da vigneti.
L’animale che mi porta dopo breve
tempo comincia a sbuffare perché gli zoccoli suoi non trovando resistenza su
quella specie di arena lo costringono ad una maggiore fatica.
Proseguendo per la via omonima,
dopo mezzora trovo un sentiero non troppo facile praticato in mezzo alla lava
eruttata nell’anno 1886. Questo sentiero peggio non potrebbe essere. È lungo
circa sei chilometri e mi meraviglia come il mio mulo abbia l’abilita di
camminare con tanta franchezza. La lava che lo fiancheggia è di colore nero,
spugnosa stesa quasi orizzontalmente. Ai lati si estende dai tre ai
quattrocento metri. Questa lava nel 1886 mancò poco che raggiungesse Nicolosi.
Gli abitanti a quell’epoca, invasi da giustificato spavento, già iniziato a
svuotare le abitazioni per mettere in salvo le masserizie e qualcuno vendette
le proprie suppellettili a prezzi irrisori.
Finalmente lascio la lava e passo
su un sentiero sabbioso fiancheggiato per circa mezzora da vigneti. Più avanti
trovo la Casa Cantoniera e poi verso le otto arrivo ai depositi di neve. A
questo punto lascio il mulo per percorrere le altre tre ore di viaggio a piedi.
A tutta la comitiva non rimane che un mulo per il trasporto del
vettovagliamento.
Percorro mezzo chilometro a piedi
ed ecco mi trovo alla bocca del cratere che nel 1886 eruttò la lava nel mezzo
della quale fu poi praticato il sentiero scabroso per il quale transitai
qualche ora prima. Tale cratere è completamente spento. Abbandono questi per
portarmi a quelli dell’eruzione del 1° maggio 1910 che sono due. Il primo ha la
bocca di forma ovale la cui circonferenza è di 100 metri circa. Il suo fondo va
man mano stringendosi dalle pareti ed alla profondità di 30 metri, dove al
massimo si può scorgere, presenta ancora una periferia di 20 metri. Ai suoi
lati vi sono detriti di colori vari, i più che abbondano sono: il giallo, il
bianco ed il turchino. Raccolgo un pezzo di pietra che molto somiglia allo
zolfo, ma appena la stringo va in frammenti. Provo ad accenderla ma con esito
negativo. Le pareti mandano ancora vapore acqueo, però in piccola quantità. Da
questo cratere nel maggio 1910 la lava usciva copiosa tanto da impressionare
gli abitanti di Nicolosi. La lava, come da tutti gli altri crateri eruttivi,
usciva con una velocità spaventevole, pressappoco 10 metri al secondo e veniva
lanciata a forma di zampillo a otto o dieci metri di altezza.
Dopo aver raccolto un grosso
pezzo di lava di vari colori, con il proposito di portarmelo nel continente
quale ricordo di questa mia gita, lascio questo luogo.
Durante la via che divide il
sentiero fra la lava, al cratere che ora ho descritto, mi sono dimenticato di
dire che trovai la località di Scafani con una sola casa colonica e con nelle
adiacenze un bellissimo frutteto. Più avanti un’altra casa dove, estratta
dell’acqua da una cisterna abbiamo bevuto noi componenti della comitiva ed i
muli. Più avanti ancora il rifugio governativo, chiamato Casa Cantoniera,
munito di cinque cuccette e di sufficienti arnesi di cucina; e subito dopo il
cratere suddetto, dopo circa un’ora di cammino, troviamo il rifugio del Club
Alpino che è chiuso. E noi siamo privi delle chiavi. Qui siamo a 2200 metri dal
livello del mare. Siamo un po’ stanchi ed affamati vorrei dire, perciò ci
sediamo all’ombra del rifugio a discorrere, e dopo un breve consiglio di
“famiglia”, di cui mi onorano della nomina di Presidente, propongo un
piccolissimo rinfresco. La mia proposta non soltanto viene accettata
all’unanimità ma anche onorata da un’acclamazione tanto lunga che termina
soltanto quando i gitanti ricevono un paio di sardine, un pezzetto di pane e
del vino da mettersi nello stomaco, fino a quel momento digiuno.
Tutti mangiano con molta avidità
perché, oltre ad essere quasi le ore dieci, questi miei amici sono tutti
giovani e robusti. Mentre la bocca lavora, gli occhi non devono perdere tempo,
perché questo punto offre qualche cosa di meraviglioso alla nostra vista:
“Guardando in basso e cioè a sud, vedo
Nicolosi prima, Mascalcia poi e finalmente la bella Catania circondata dal mare
da un lato e dai stupendi giardini dagli altri. A Sud-Ovest osservo i
capoluoghi dio mandamento: Belpasso, Paternò e Adornò. Tutti questi paesi sono
costruiti sulla lava che da qualche migliaio di anni vede la luce. Sono
circondati da innumerevoli vulcani spenti che si innalzano dai 100 ai 500 metri
dai terreni circostanti ed hanno la somiglianza di un cappello con la cupola
calata”.
Sono quasi le ore dieci e per
giungere alla meta ce ne vogliono ancora due. Noi però facciamo il conto di
arrivare soltanto fino all’osservatorio (Casino degli Inglesi) prima di
mezzogiorno dove, dopo aver pranzato, ci riposeremo prima di riprendere il
rimanente viaggio alla sera e precisamente poco prima del tramontare del Sole.
Nel riprendere il cammino guardo
a Nord e vedo la cupola dell’Osservatorio rassomigliante un pallone aerostatico
posato sopra una rustica casa e, più in alto, la sommità del cratere Etna che
manda fumo. Da ora in avanti, per dove passo e nei dintorni, non vedo uno stelo
d’erba né una pianta. Tutto è brullo. La distanza che mi divide
dall’Osservatorio, con andatura forzata, la supero in tre quarti d’ora.
La pendenza non fu troppa, né il
terreno accidentato ma neppure solido: il piede non trovava resistenza perché
c’era tutta sabbia poco più grossa di quella che trovai appena lasciata
Nicolosi.
La località dove ora sono
transitato è chiamata Pian del Lago. I geologi sono concordi nel ritenere che
in tal punto, fino all’Epoca Preistorica, esistesse il cratere principale e che
appena apertasi la bocca dell’attuale si sia spento e riempito, col tempo, dei
detriti del nuovo.
All’Osservatorio più volte
ricordato, sono giunto per secondo. Primo arrivò il Signor Boggilero Enrico,
figlio di un professore di fisica, piemontese, però da una ventina d’anni
residente a Catania. E poiché manca colui che ha in custodia le chiavi
dell’Osservatorio, e non arriverà che fra mezz’ora, io e il Boggilero pensiamo
di utilizzare il nostro tempo in osservazioni.
Il mio compagno è molto colto,
non ha ancora compiuto 17 anni di età ed ha già ultimato il primo anno di
Università: studia chimica. Egli non è la prima volta che vede da vicino l’Etna
e le sue adiacenze. Mi invita ed accetto di andare ad osservare due cosiddetti
fumaioli che trovansi a 300 metri al lato Nord-Est dell’Osservatorio. Il primo
è piccolo, manda il fumo o meglio il vapore assai pressato; la sua bocca è poco
più di tre metri di circonferenza, divisa a mezzo da un grosso pezzo di lava.
Cautamente avvicino una mano e sento che il calore è insopportabile. Il mio
compagno mi dice che il calore di questo vapore varia dai novanta ai cento
gradi.
Giacchè un po’ di confidenza è
reciproca, azzardo ogni tanto di dire qualche corbelleria, e perciò propongo di
non accendere il fuoco e di collocare la marmitta sulla bocca dove si potrebbe
allessare la carne e cuocere la pasta. Però, ritiro subito la proposta perché
il mio interlocutore mi dice che egli un anno fa, per tentare di fare ciò che
io ho proposto, rimase a bocca asciutta: quando la pasta era quasi cotta, un
boato gli aveva mandato il recipiente a qualche metro di altezza e per poco non
rimaneva vittima di serie scottature.
Il secondo fumaiolo è assai più
grande e maestoso. La sua bocca ha circa dieci metri di circonferenza. Mi metto
in un luogo in modo da farmi investire dal vapore caldo: il suo odore di zolfo
e di ferro è asfissiante. Sento che mi attacca i bronchi e mi rende difficile
il respiro. Mi allontano in fretta, sento il viso bagnato e vedo i panni che
indosso che gocciolano per l’umidità ricevuta. A qualche metro di distanza
osservo ancora quel fumo che, esposto ai raggi del Sole, prende tutta
l’apparenza di un arcobaleno.
Vicino ai crateri ora descritti è
facile che se ne apra qualche altro, ma tali aperture sono sempre precedute da
scosse di terremoto, in modo che il visitatore farebbe in tempo ad
allontanarsi.
Il mio amico Boggilero non è mai
sazio di camminare, insiste per condurmi a vedere il cratere principale prima
di pranzo. Io però riesco a convincerlo a rimandare la visita alla sera, anche
perché il suo splendido binocolo lo aveva consegnato ad un altro della comitiva
che ancora non era giunto e, senza quello, non si sarebbero potute scorgere le
segnalazioni che i carabinieri di Nicolosi avrebbero fatto dalla terrazza della
Caserma: giusta la promessa ieri ricevuta. Andiamo perciò all’Osservatorio
dove, dopo breve attesa, ci mettiamo a tavolo per consumare il pranzo che,
così, merita di essere chiamato poiché molte e buone vivande ci siamo portati
ed ora ne proviamo il gusto, ed il sapore è maggiore per il fatto che ognuno di
noi dice qualche aneddoto così da suscitare il riso sulle labbra di tutti. Sono
quasi le ore 14.00 e ci rechiamo a letto per un paio d’ore.
Sono le 16.30 e riprendiamo
l’ascesa per un sentiero non troppo facile, ostacolato da lava di ogni dimensione
e da una poltiglia color cenere coperta da un leggerissimo strato di allume di
rocca, sodio e altro formatosi dai vapori che escono dal suolo tiepido. Ciò
indica che siamo poco distanti dal cratere, poiché quel terreno di riflesso ne
risente dal calore.
Eccoci, dopo le ore 17.30. Mi
trovo sull’orlo della bocca del terribile vulcano. Colui che non l’ha mai vista
non può formarsi un’idea dello spettacolo che presenta questa bocca infernale.
Ha un diametro di circa 600 metri. Io ed altri due miei compagni passiamo, a
salti, sopra i vari crepacci dai quali si sprigiona fumo e vapore acqueo molto
puzzolente e ci portiamo sull’orlo della bocca del cratere dove ci sdraiamo a
terra e sporgiamo il capo all’interno dello stesso.
Le sue pareti a picco sono di molti
colori, ma i più marcati sono quelli dello zolfo, del ferro ed il cenerino. È
da queste pareti che maggiormente fuma. Dei momenti il mio sguardo si spinge
fino a 50/60 metri di profondità, ma tutto ad un tratto vengo investito dal
fumo che mi costringe a coprirmi il viso con un fazzoletto, per non morire
asfissiato. Odo continui boati che partono dalle viscere del cratere. I rombi
sono seguiti da una specie di fischi di vento, però di una potenza
impressionante e pare che curiosissimi temporali si scatenino. Il fumo, oltre
che ad impedirmi di vedere, mi attacca i bronchi e mi impedisce il respiro. Per
questo motivo, e per obbedire alle insistenti preghiere dei miei amici rimasti
a distanza, mi ritiro, preceduto dagli altri due, da quella pericolosissima posizione.
Infatti, il terreno che mi sorregge è pieno di fessure e con una piccola scossa
di terremoto, facile ad avvertirsi in questo luogo, potrebbe crollare e
travolgermi nell’inferno ancora prima di morire. Qualche geologo ritiene che la
profondità del cratere raggiunga i cinque chilometri e qualche altro anche i
cinquanta.
Il cratere principale fino ad un
chilometro dalla bocca è pieno di lava incandescente che bolle continuamente in
quella specie di caldaia naturale. La lava si alza e si abbassa come fa il
latte in bollitura in una pentola. Ricordano che in tempi di eruzione sia
salita fino a pochi metri dalla bocca ma che mai abbia traboccato. La lava esce
per altre bocche che si aprono ai fianchi del monte, e sono chiamate bocche
eruttive. Dal cratere principale escono invece molti massi del peso di pochi
chilogrammi, qualcuno può arrivare perfino ad una tonnellata.
Questa specie di bombe infuocate
e pregne di gas vengono lanciate a considerevole altezza,perfino a mille metri
sopra il cratere. In aria parecchie scoppiano mandando i frammenti in varie
direzioni, mentre quelle che rimangono intere vengono inghiottite dalla bocca
che le ha eruttate.
Faccio una cinquantina di metri,
fino a pochi metri dal cratere, su un terreno umido e caldo. La superficie è
coperta da un leggero strato di allume di rocca, potassa, sodio, zolfo ed altre
materie che non conosco formatesi dai vapori che quel terreno emana. Arrivo su
uno spazio di circa 200 metri di larghezza che divide il cratere principale da
quello di circa 160 metri di diametro, formatosi il 26 maggio 1911. Più oltre
non mi arrischio di procedere per la difficoltà del respiro e per il grave
pericolo che si presenta. Qui mi trattengo poco più di mezzora ed assisto al
tramonto del sole. Intanto che osservo vari paesi della provincia di Siracusa,
dei quali non posso avere il nome, tutti posti in alture verso Ovest, vedo i
monti frumento e rosso. Comincia a farsi buio. Sporgo un’altra volta il capo
nel cratere ed osservo uno splendore impressionante prodotto dalla lava
incandescente.
Assieme ai miei compagni prendo
infine la via per portarmi all’Osservatorio, dove giungo a notte fatta.
Mi metto a tavola assieme ai miei
compagni, ma tutti mangiano con poco appetito a causa della stanchezza ed anche
perché il cambiamento di atmosfera causò a tutti noi una leggera
indisposizione. Sono le 23.00, vado a coricarmi perché ne ho assoluto bisogno.
Alle ore 3.oo del 25 agosto 1911
mi desto e subito sveglio i miei compagni di viaggio. Soltanto 4 si sentono in
grado di seguirmi per risalire al cratere, lato Sud-Ovest, gli altri sentono un
po’ di febbre, dolori di capo e alle gambe e di conseguenza desiderano rimanere
sulla cuccetta.
Guardando la mèta mi sembra
impossibile salire da questo lato, sia per la ripidezza del monte ed anche
perché lo strato di composizione chimica sulla superficie è molto più
pronunciato che altrove. Questo significa che il monte da questa parte è molto
vaporoso e di conseguenza fangoso. Mentre faccio queste riflessioni cammino
seguito dai miei compagni. Mancano soltanto circa 100 metri per arrivare alla
mèta ed il pericolo di scivolare aumenta ad ogni passo, benché il riguardo di
appoggiare le mani non esista. Mi faccio pallido ed i miei compagni, benché
coraggiosi, sono come la cera per la paura di una caduta che sarebbe funesta.
Evitiamo di guardare in basso per non vedere il pericolo che ci minaccia. Tento
di fare dei gradini con i piedi, ma peggio che mai perché, rotta la superficie
che è abbastanza sottile, sotto trovo fango un po’ resistente ma caldo. A tutta
la mia energia unisco quella dei miei compagni e, aiutandoci reciprocamente,
superiamo le difficoltà e arriviamo, poco prima della levata del Sole, al
cratere.
Anche il posto che scelgo per
osservare è pericoloso, perché la superficie non è piana nemmeno per un metro.
Spingendomi in avanti precipiterei nel cratere; trattenendomi all’indietro
scivolo dal monte. Oltre a ciò bisogna tener pure conto del vento che spira
alla sommità di un monte alto 3300 metri. In ogni modo assisto alla levata del
Sole e dopo aver osservato ripetute volte l’interno del cratere, e chiamato
all’attenzione dai boati, rombi e fischi, volgo lo sguardo verso Est e vedo
l’isola di Malta e verso Sud-Est le coste della Calabria.
Mi sembra di aver visto
abbastanza, sono già le ore 6.30, comincio la discesa per ritornare
all’Osservatorio per via diversa dalla prima, e senza molte difficoltà
raggiungo i miei compagni che sono ancora a letto.
Ritornato all’Osservatorio prendo
un po’ di cibo e verso le ore 9.30 riprendo la via per restituirmi a Nicolosi,
tenendomi però ad Est della via percorsa ieri. Dopo mezz’ora di cammino mi
trovo sopra la Valle del Bove. Mi fermo circa venti minuti a contemplare le
bellezze della natura. La valle omonima è larga circa 6 chilometri e lunga quasi
15: per la sua forma e per le sue tracce lasciate, fa rilevare che ivi fino dai
tempi preistorici esistesse un vulcano grandissimo. Difatti alle sue pareti
noto grandissimi spacchi riempiti di lava. Nelle adiacenze un’infinità di
crateri eruttivi ora spenti, la lava dei quali dopo aver percorso 20 chiloòetri
raggiunse il mare.
Spingendo i miei sguardi ad Est
vedo i paesi e i capoluoghi di mandamento: Trecastagni, Zafferana, Acireale e a
Nord-Est Linguaglossa e Castiglione. Ora ritengo di aver visto abbastanza e,
siccome oltre il mio desiderio di ritornare a Nicolosi sono anche le mie forze
quasi esaurite, riprendo la vecchia via e senza curarmi di altro, proseguo
diritto diritto a capo chino.
Finalmente assieme al carabiniere
ed al Signor Boggilero, alle 17.00 circa, giungo a Nicolosi, stanchissimo ma
contento per aver fatto oltre al viaggio di piacere anche un viaggio di
istruzione. Non avrei mai creduto, per aver sentito raccontare o leggere nei
libri, che la natura presentasse tante varietà.
Gli altri compagni giunsero a
Nicolosi un paio d’ore dopo il mio
arrivo.
Nicolosi lì 25 agosto 1911
Luigi Borsoi
NICOLOSI
Verso le ore 1.00 del 9 settembre
1911 fui destato da una forte scossa di terremoto. Fattosi giorno in paese si
era subito propagata la notizia che l’Etna era in eruzione. Da Nicolosi si
vedeva uscire abbondante fumo e cenere dal cratere principale, mentre i crateri
eruttivi, circa 50, si erano aperti verso Linguaglossa, molto distanti da
Nicolosi. Dai crateri eruttivi provenivano forti rombi che davano l’impressione
di un continuo e forte cannoneggiamento.
Dopo otto giorni di eruzione fu
calcolato che dal cratere principale fossero usciti 125 milioni di metri cubi
di cenere e dai crateri eruttivi 175 milioni di metri cubi di lava.
Nicolosi lì 25 settembre 1911
Luigi
Borsoi